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Le tre chiavi di Mary Bryant

Creato il 10 aprile 2015 da Retrò Online Magazine @retr_online

Il suo carceriere, un marinaio della Prima Flotta e un capitano olandese: le tre chiavi per la fuga miracolosa di Mary Bryant ai tempi della prigionia infame

Inghilterra, 1786: la diciannovenne Mary Broad è nascosta tra le fronde degli alberi coi crampi allo stomaco per la fame e un’imminente aggressione sulla coscienza, in attesa che il primo passante si faccia vivo. Finalmente le sue attese vengono premiate: una donna passa per il sentiero in quel momento. È sola. Mary non perde tempo: salta fuori dal suo nascondiglio e colpisce la donna, derubandola. Ma la sorte non è dalla sua parte: viene sorpresa a fuggire con la refurtiva e incriminata dal sindaco di Plymouth J. Nicholls, quindi incarcerata. Viene trascinata in catene di fronte al braccio della Legge: ad attenderla c’è la donna che Mary aveva aggredito, pronta a testimoniare contro di lei. La Corte emette la definitiva sentenza: Mary Broad viene condannata a morte per aver rubato una cuffietta di seta e dei gioielli e colpito una donna. Questa è l’ultima parola del giudice. Mary non si dà pace. Mentre si arrovella nelle viscere della prigione, un’idea le balena nella mente: le donne incinte non vengono giustiziate. Si convince che la sola chiave per uscire viva da quella cella sia David Spencer, la guardia carceraria che la controlla a vista.

Dopo qualche settimana viene annunciata l’impossibilità di impiccare la condannata Mary Broad a causa della sua gravidanza: le galere londinesi che si ergono sulle sponde del Tamigi sono colme di detenuti condannati a marcire nelle prigioni in attesa dell’impiccagione o per il resto della loro vita, quindi occorre trovare un’altra soluzione. La Corte si esprime e la condanna a morte della signorina Broad viene commutata in bando nel Nuovissimo Continente, nel Galles del Sud, in Australia.

Mary Bryant

Mary Bryant fu mandata in Australia, ai tempi conosciuta come Nuova Olanda

La rotta verso l’infame destino

La Nuova Olanda si sta trasformando a poco a poco nell’appendice delle prigioni europee, dove esiliati e condannati, assassini e criminali, ma anche persone che si sono macchiate di delitti minori – come il furto di un fazzoletto o di fili di corda – vengono caricati sulle navi per affrontare il viaggio che li porterà nella costa orientale di quella terra a sud del mondo conosciuto. Sei mesi dopo, Mary viene condotta in catene al porto di Londra per salpare verso un viaggio da cui nessuno fa ritorno, verso una meta in cui il destino delle donne è ben più crudele di quello degli uomini. Dopo il 1776, l’Inghilterra trema di fronte alla minaccia che le colonie australiane si possano ribellare come le loro corrispettive americane, quindi escogita un modo per tener calmi gli animi dei coloni di quella terra lontana in cui sua maestà ha piantato la propria bandiera. Centinaia di donne – prostitute e condannate – devono essere mandate nella Nuova Olanda per compiacere i marinai e gli abitanti delle colonie inglesi, nella speranza che essi non perdano mai la fiducia nella loro madrepatria. Con queste afflizioni che gravano su di lei e con un bambino in grembo, Mary Broad sale in catene sulla nave che attraverserà il suo Stigie: nel maggio del 1787 la Prima Flotta, convoglio di undici navi sotto il comando del capitano Arthur Phillip, salpa per il Galles del Sud. Le detenute sono stipate nelle stive a lottare per settimane col buio e con l’umidità, respirando a stento e sopportando la sete e la fame. I pianti dei bambini fanno d’eco alla logorante traversata dell’oceano, i passi dei marinai sul ponte fanno trasalire le prigioniere sottocoperta. Lo scorbuto diviene il nuovo assassino a bordo, non facendo distinzioni tra equipaggio e condannate e la paura di un naufragio è costante, i pericoli che possono riserbare le acque profonde di quei mari da poco mappati incombono costantemente. A due mesi dalla partenza, Mary inizia a sentire le prime doglie: il dolore e la paura sono ineguagliabili. Viene assistita dal medico di bordo aiutato dalle altre detenute, e qualche ora dopo nasce una bambina. Mary la chiamerà Charlotte, come la nave che sta conducendo entrambe verso l’ignoto.

L’isola della prigionia

Mary Bryant

L’Australia era una vera e propria isola-prigione fra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo

La vedetta avvista le coste della Nuova Olanda dopo altri quattro mesi: Mary teme il peggio. Le leggende circa il loro destino sono riecheggiate in quella putrida stiva per l’intero viaggio: al loro arrivo sarebbero state accolte dai coloni e Dio solo sa che cosa ne sarebbe stato di Charlotte. Mary deve reagire. Mentre la nave è alla fonda nella baia, lei seduce un marinaio, William Bryant – un abile e forte pescatore che avrebbe dato sicurezza a lei e alla bambina – e lo sposa prima di scendere a terra. Così, una volta fatto porto, tutte le prigioniere vengono violentate brutalmente dai marinai e dagli abitanti delle colonie. Tutte tranne Mary. Lei viene difesa dal nuovo marito, che si occuperà anche della bambina come se fosse propria. Nel maggio del 1790 lui e Mary avranno il figlio Emmanuel. Ma i giorni di pace finiscono prima ancora di poter essere iniziati. Il marito di Mary viene sorpreso a rubare dei pesci dalle barche da pesca che lui stesso avrebbe dovuto sorvegliare, quindi viene fermato e condannato a cento frustate: da quel giorno la sua vita e quella della sua famiglia non sarà più la stessa. Devono fuggire per poter sopravvivere, devono scappare per la libertà. Ma come fare? Mary individua nuovamente in un uomo la chiave della sua liberazione: nella notte entra nell’accampamento della marina olandese e si offre al capitano in cambio di una mappa delle coste australiane e di una bussola. Il mattino del 28 marzo 1791, all’alba della prossima marea, Mary, la sua famiglia e altri sette prigionieri si imbarcano su un cutter rubato dal marito e fanno rotta verso nord.

La fuga miracolosa

I fuggitivi vengono sorpresi dopo poche ore ma non vengono inseguiti per mancanza di navi abbastanza veloci da recuperare le leghe perdute. Scappare da quell’immensa prigione galleggiante è considerata un’impresa impossibile, nessuno ci è mai riuscito prima. Fuggire significa lasciare la terraferma sicura per darsi al mare incerto e abbandonarsi alle sue correnti su un misero cutter è un’impresa più folle che ardita: potrebbe significare anteporre la morte alla prigionia. Ma indietro non si torna. L’abilità di William nel seguire le mappe e usare la bussola unita al richiamo della libertà è più forte di qualsiasi timore. I fuggitivi riescono a raggiungere “l’arcipelago a settentrione” dopo aver navigato per sessantasei giorni, percorrendo 5000 chilometri, ma non possono scendere a terra. Gli aborigeni impediscono agli usurpatori di penetrare nell’isola per diverse ore prima di cedere. Quando finalmente i profughi riescono a baciare le sabbie di Timor, a Kupang, ringraziando Dio, si spacciano per naufraghi. Ma una sera l’ebbrezza del vino tradisce William: l’uomo rivela la vera identità dei fuggitivi, che vengono riconosciuti come i detenuti britannici scappati dal Galles del Sud. Per evitare che lo scandalo giunga in Europa, i prigionieri vengono imbarcati su una nave olandese diretta a Batavia – dove una febbre colpirà mortalmente Emmanuel e William – insieme ai sopravvissuti della Pandora, la nave che l’Inghilterra aveva inviato per recuperare gli ammutinati del Bounty. Raggiunta Città del Capo, vengono trasferiti sul vascello della marina regia britannica in rotta verso l’Inghilterra e incatenati nelle stive.

Nel 1792, all’ultima tappa del viaggio una febbre colpisce Charlotte: Mary viene scortata sul ponte con la bambina in braccio e getta il corpicino in mare, rimanendo a contemplare dal parapetto il cadavere della figlia che affonda tra i flutti che si accavallano contro la chiglia. Charlotte è nata su una nave e su una nave è morta.

Il ritorno a nuove catene

Dopo sei mesi trascorsi a fremere tra i quattro orizzonti, i cinque sopravvissuti approdano in Inghilterra e Mary viene deportata per un anno nel carcere di Newgate. Sui giornali del mattino seguente i titoli danno voce all’avventura della donna misteriosa che è riuscita a scappare dal Galles del Sud su un misero cutter e che è stata riportata in patria per poter morire come la ladra che era: in pochi riescono a ricevere due condanne a morte e Mary Bryant è una di questi. Le proteste pubbliche non sono bisbigli e un famoso scrittore e avvocato, James Boswell, legge la storia di Mary e ne rimane impressionato. Deve conoscere questa donna. Le fa visita a Newgate e, ammirato dal suo temperamento, decide di intercedere per lei in tribunale: dopo sette anni di persecuzioni Mary è finalmente libera e – secondo alcune fonti – può sposare il suo liberatore e tornare a Timor, dove vivrà per quarant’anni, fino alla morte.

L’audacia di una condannata a morte

Tra il suo ultimo approdo nell’attuale Oceania e il giorno della sua morte non si sa più niente di lei, ogni traccia di quegli anni sfuma nel silenzio della storia. Mary Bryant è stata una delle tante donne mandate nell’altro lato del mondo in catene e condannate a morire come prostitute negli insediamenti dei coloni. Eppure lei non ha vissuto niente di tutto questo. Lei si è servita dei suoi stessi carcerieri per guadagnarsi faticosamente la libertà, sfiorando ogni volta la morte con un dito ma senza mai permetterle di trascinarla per il polso nel suo regno. Le tre chiavi di Mary le hanno aperto i cancelli della sua prigionia per tre volte e la quarta e ultima le ha donato quella libertà definitiva che nemmeno la più strenua delle speranze avrebbe mai immaginato di poter ottenere, limitandosi a godere della semplice proroga di una morte certa.

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