Sita al numero 49 di via Alessandro Manzoni, in una delle più noiose, banali, e piccolo-borghesi strade di San Giorgio a Cremano, Villa Bonocore rappresenta un’altra tra le tante realtà più sintomatiche, significanti, tuttavia eloquenti nel loro silenzio e nella censura (in cui il Miglio d’oro sembra essere stato riposto), capaci di riflettere simbolicamente, con la propria ruderale testimonianza, lo stato di delegittimazione totale di un particolare passato, in questo caso delle Ville Vesuviane, da parte di una generazione storica in piena alienazione di sé tra capitale e consumo.
Come se non bastassero i casi di Villa Ummarino, orrendemente mutilata nel suo barocco e nella sue torri militari, a via A. Gramsci, e Villa Pignatelli di Montecalvo, ormai un mikado, a Largo Arso, la Villa Bonocore scompare senza, come amava scrivere Benjamin, che qualcuno si stroppicciasse gli occhi di fronte alla sua dialettica.
Contro questo andamento, e nel solco della nostra rubrica, intenta a immaginare anche e soprattutto una nuova Europa possibile, ci rivolgiamo all’ennesima immagine dialettica disponibile al nostro sguardo: la Villa Bonocore.
“Nell’immagine dialettica, ciò che è stato in una determinata epoca è sempre, al tempo stesso, “il sempre già stato”. Esso, però, si manifesta di volta in volta come tale solo agli occhi di un’epoca assolutamente determinata: quella in cui l’umanità, stropicciandosi gli occhi, riconosce come tale proprio questa immagine di sogno (traumbild). In quest’attimo è che lo storico assume il compito dell’interpretazione del sogno (die Aufgabe der Traumdeutung)”.
A questo proposito il filosofo francese Didi-Huberman ha scritto, in un recentissimo contributo a Che cos’è un popolo? (DeriveApprodi 2014), che: “Quando l’umanità non si stropiccia gli occhi – quando le sue immagini, le sue emozioni e i suoi atti politici non si vedono divisi da niente -, allora le immagini non sono dialettiche, le emozioni sono “povere di contenuto” e gli atti politici stessi “non investono alcun futuro”. Ciò che rende i popoli “introvabili” è, dunque, da ricercarsi tanto nella crisi della loro raffigurazione quanto in quella del loro mandato.
In altre parole nell’attuale crisi delle democrazie borghesi compito dello storico è “rendere i popoli rappresentabili facendo figurare esattamente ciò che si trova represso nelle loro rappresentazioni tradizionali”. Contro la rimozione, questo tipo particolare di repressione, lo storico deve stropicciarci gli occhi e riconsegnarci a una visione dialettica della storia, dove la lotta contro la repressione si combatte arginando la rimozione, scoperchiando le pentole dell’oppressione dei popoli dominati in chiave emancipante.
Levare il coperchio su Villa Bonocore, ad un livello ulteriore, è il nostro rinnovato contributo benjaminano per la rappresentazione di un popolo fino ad ora invisibile, represso e rimosso socialmente: l’Europa che non c’è, l’Europa da inventare.
Edificata come masseria, e non primariamente come “Villa di delizie”, ai giorni nostri la Villa Bonocore non gode di un’ottima salute, anzi subisce il destino crudele che è riservato a gran parte del Miglio d’oro. Resiste sotto il peso della fatiscenza una fabbrica di tufo a pianta rettangolare, massiccia e pesante nelle sue fattezze e intransigente nella sua durezza oltre ogni tentativo settecentesco (come nel caso delle terrazzi agli estremi) di alleggerimento del complesso. In essa potevano distinguersi, oltre il nucleo abitativo, i reparti per le trasformazioni dei prodotti agricoli, le cantine, le stalle, i depositi, una cappella nobiliare ma ad accesso pubblico, il fondo risalente al 1678. In base a ricerche d’archivio si ipotizza che la Villa Bonocore possa risalire addirittura al XVI secolo, nella sua struttura originaria, che solo tra il 1629 e il 1678 acquisì le soluzioni fondamentali.
L’entrata principale della masseria si affacciava sull’Alveo San Michele, la strada che portava ai “catini”( oggi situazione alterata per via dell’innalzamento del livello stradale), ed era definita da un portale con due pilastri e un cancello e da una cappella gentilizia dedicata a san Michele Arcangelo. La cappella risale alla seconda metà del Seicento, ma solo dopo due successive riscritture essa ci appariva con le stesse forme attuali. Al 1755, anno del secondo restauro, la cappella fu arricchita della sacrestia e di ornamenti ulteriori interni. La cappella, con pianta rettangolare, è coperta da una volta a padiglione affrescata, da un altare (ormai demolito e trafugato) con arco a tutto sesto. Le pareti laterali sono partite con riquadri di stucco, quattro paraste angolari con capitelli in stucco e un’alta trabeazione sulla quale si regge la volta. L’aggiunta ottocentesca del coro riprese il disegno decorativo della cappella, anche se ha provocato la distruzione delle paraste angolari poste verso l’accesso. La sacrestia, anch’essa di pianta rettangolare, è scandita in tre campate di cui quella centrale è quadrata, e coperta da una volta a crociera , mentre le due restanti, poste simmetricamente rispetto ad essa, sono coperte da due semi-volte a padiglione con schifo. “L’intervento ottocentesco per questo settore ha apportato una scalinata al coro, la quale ha tagliato una delle volte a padiglione”.
In precedenza dalla cappella si accedeva a un esedra trapeziodale, ornata da semplici paraste. Da quest’ultima dipartiva un lungo viale che portava alla costruzione rustica dove si svolgevano le attività agricole. La famiglia Bonocore, che seguì ai Rano (artefice dell’opera), restaurò sia la Cappella che il ciclo di affreschi del Corriase, allievo del Giordano, oggi, insieme agli stucchi e il finto mattone del rivestimento che ricoprivano il campanile a vela, seriamente in rovina. Nei pressi di Villa Bonocore troviamo le abitazioni dei pittori Solimena, Giordano, Buongiovanni, patrizio di Tropea, Bolino Capece, le case dei Rota e dei Figliola, i ruderi della casa dei Liguoro Presticce.