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Alzi la mano chi non è rimasto affascinato da 13 Tzameti (2005). Bene, vedo tutte braccia conserte.
In effetti la pellicola del giovane georgiano Géla Babluani è stata un piccolo sisma che si è propagato aldilà dell’oceano atlantico fiorendo in un remake shot-by-shot che a noi fervidi disprezzatori del denaro (soprattutto quando riporta questa effige: $) ha lasciato qualche dubbio, anche senza vederlo.
Ma tra l’esordio ed il remake a stelle e strisce Babluani ha fatto dell’altro, e lo ha fatto con suo padre Temur, anch’egli regista, ma inattivo dal lontano 1992 (il suo ultimo film è intitolato Udzinarta mze).
Come è accaduto per il film precedente, anche L’héritage (2006) sembra sia stato cablato principalmente per la scena madre, ma con il difetto non trascurabile che il contorno rurale allenta la morsa dell’attenzione rispetto ad un appartamento adibito a macabro gioco.
Costituito da una breve durata, la sceneggiatura sbriga le faccende iniziali in maniera sciatta (il traduttore che ha problemi di lavoro; l’incontro con i francesi; il furto della videocamera), elementi tirati via in malo modo, rapidamente, giusto per tappare la falla del prologo.
Una volta che il gruppo si mette in viaggio continua a persistere una vaga slabbratura nella narrazione, l’incontro col nonno e il nipote (Babluani stesso) al pari dell’avvicinamento a quest’ultimo da parte dei francesi è ingessato nella predizione spettatoriale: il giovane getta l’amo (“portiamo una bara perché mio nonno domani verrà ucciso”) e “ovviamente” il turista occidentale s’incuriosisce della sua vicenda. L’impostazione prefigurata calpesta qualche possibile obiezione razionale: si parla di omicidi, perché mai delle persone che sono lì per tutt’altro motivo dovrebbero impicciarsi in quelle cose? Liberté, Égalité, Fraternité contro la legge del taglione è una condotta lodevole ma dubito che sia traslabile nel contesto qui ripreso…
Si diceva però della scena madre, e lo si sottolinea: cosiccome era successo in 13, lo spannung viene ben orchestrato grazie all’uso dei campi e delle differenti soggettive (una volta i cattivi, un’altra i testimoni oculari), ma soprattutto trova una svolta niente male con la prematura dipartita della vittima designata e relativo accanimento sul superstite.
Ecco che quindi si plasma l’intenzione dei due registi, quella di raccontare una Georgia arcaica e medievale in cui i debiti si pagano ancora col sangue e non importa se sia quello di un innocente.
Pochino dite? Non è moltissimo a conti fatti, d’altronde è risaputo che l’affermazione dopo un debutto importante è impresa complicata, tuttavia c’è un altro discorso che caratterizza l’opera, una questione più sotterranea e lasciata a congetture decisamente meta. In alcuni frangenti, compreso il delitto, vi è un accentramento d’attenzione intorno agli strumenti, alla videocamera: inizialmente viene rubata (e per il relativo riscatto vedremo quante ne possiede il manigoldo), poi le autorità ne vietano l’utilizzo, ma nonostante tutto l’occhio riesce a catturare la scena del crimine. Parallelo con le difficoltà che hanno i giovani registi nel svolgere la propria professione in Georgia? Chissà!
Diciamo che Babluani dopo il promettente esordio deve ancora dare una conferma precisa della sua identità, né questo, né il rifacimento statunitense, possono farci parlare di un vero e proprio astro nascente nel cielo del cinema.
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