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Sembra che ultimamente sia in atto una vera e propria battaglia contro chi legge: su facebook nascono pagine che proclamano l'inutilità dei libri a favore di dei film, nel pensare comune i lettori vengono visti come disadattati asociali che vivono solo ed esclusivamente per i libri e nel mondo dei libri e si tende a guardare un po' di traverso le persone che viaggiano sempre con un libro in mano e leggono ogni volta che possono, neanche fossero affette da una strana e incurabile malattia.
Girovagando un po' in rete ho trovato alcuni articoli che mi hanno offerto spunti interessanti per scrivere questo post.
Uno è tratto da Il Giornale, è stato scritto da Luigi Mascheroni e risale a un po' di anni fa. Ve lo riporto qui di seguito:
La verità, contrariamente a quello che pensa la maggior parte della gente, è che i libri sono pericolosi. Non soltanto spesso sono inutili, ma addirittura possono fare danni, persino peggiori di quelli prodotti dall’ignoranza. Leggere fa male, molto male.
È un concetto difficile da accettare, soprattutto in tempi come i nostri di bestsellerismo imperante, di editoria over-size, di mega-store pieni zeppi di «novità», di super festival del libro e della letteratura (dove tutti vogliono vedere, già meno ascoltare, quasi mai leggere). Un concetto difficile da accettare in un Paese come il nostro dove si pubblicano tra i 60 e i 70mila libri all’anno ma dove meno del dieci per cento degli italiani legge più di un libro al mese. Un concetto difficile da accettare in questo sovraffollamento di titoli dove l’abbondanza soffoca la qualità e le parole scritte superano quelle lette.
Un concetto difficile da accettare ma sul quale vale la pena riflettere se a suggerirlo è una delle menti più sottili e brillanti del suo tempo, come lo fu Arthur Schopenhauer (1788-1860). Il suo scritto Sulla lettura e sui libri (in realtà un paragrafo dei celebri Parerga e paralipomena, che oggi la casa editrice La vita felice pubblica in una edizione «autonoma» con testo tedesco a fronte, pagg. 60, euro 6,50) è, in questo senso, illuminante. Una vera arte del non leggere. Il filosofo tedesco, attorno al 1850, metteva in guardia dal leggere. Soprattutto dal leggere troppo e dal leggere male. «Quando leggiamo, qualcun altro pensa per noi: noi ripetiamo solamente il suo processo mentale... quando si legge ci è sottratta la maggior parte dell’attività di pensare... Quindi accade che chi legge molto e per quasi tutto il giorno, piano piano perde la facoltà di pensare. Questo è il caso di molti dotti: hanno letto fino a diventare sciocchi». E più avanti: «Tanto più si legge, tanto meno ciò che si è letto lascia tracce nello spirito: diventa come una lavagna su cui si è scritto troppo e in modo confuso».
Schopenhauer è implacabile: dice che leggere paralizza la fantasia, che siamo circondati da «cattivi libri» («nove decimi della nostra attuale letteratura non ha altro scopo che spillare qualche tallero dalle tasche»), che occorre leggere solo i classici e semmai rileggerli due, tre, quattro volte. Perché la vera letteratura «produce in un secolo in Europa solo una dozzina di opere durature». E poi è anche questione di tempo: «Sarebbe una bella cosa comprare i libri se si potesse comperare il tempo per leggere, ma si scambia per lo più l’acquisto di libri con l’acquisto del loro contenuto».
A questo punto, allora, torna utile anche un altro consiglio, non di un filosofo tedesco ma di uno scrittore italiano: Luciano Bianciardi (1922-1971). Il quale nelle sue «Lezioni per diventare un intellettuale, dedicate in particolare ai giovani privi di talento» (uscite a puntate sul settimanale ABC nel 1967) spiega per filo e per segno, con la consueta ironia e l’altrettanto consueto pessimismo, come si può diventare «un uomo di successo nel mondo della cultura» anche senza cultura, appunto. Insomma, cari intellettuali (ancora in pectore o già in auge), come intima il titolo della nuova edizione in volume di quelle preziose lezioni (Stampa Alternativa, pagg. 94, euro 9): Non leggete i libri, fateveli raccontare.
Lasciando da parte il fatto che io e Schopenhauer non siamo mai andati molto d'accordo, mi sento di dissentire con l'autore dell'articolo e con il filosofo citato a sostegno della tesi di base: e cioè che leggere è inutile e fa male perché impedisce a chi legge di pensare.
Secondo quanto sostenuto, infatti, mentre leggiamo diventiamo incapaci di pensare, in quanto totalmente assorti nell'atto di leggere; per cui, chi legge molto e per molto tempo durante la giornata, rischia di diventare un completo idiota.
A parte il fatto che io vorrei leggere tutto il contesto in cui è inserita questa frase del filosofo, ma mi sento di obiettare una cosa: quando leggiamo pensiamo a ciò che stiamo leggendo e, quando smettiamo di leggere, gli spunti di riflessione sui quali ragionare si sono moltiplicati rispetto a prima di prendere in mano il libro. Se il romanzo o il saggio o il trattato di non so quale materia vale qualcosa, allora inevitabilmente la nostra mente si metterà in moto per riflettere su quella frase, su quel comportamento, su quella questione posta in essere tra le pagine di ciò che poco prima era l'oggetto del nostro leggere; se, al contrario, è un'accozzaglia di frasi fatte, stereotipi e teorie strampalate, la nostra mente lavorerà per prendere le distanze da tutto quello che è stato messo nero su bianco.
Ma sempre di pensieri e di ragionamenti si tratta.
Inoltre non è affatto vero che a furia di leggere nuovi libri dimentichiamo i precendenti perché sono convinta che qualsiasi lettore attento sia ingrado di riassumere a distanza di anni, anche se solo per sommi capi, la trama di un libro letto anni prima. Ovvio, se la storia non valeva nulla e la lettura non è stata piacevole e non era nelle corde di chi l'ha letta, allora è più che comprensibile che l'abbia scordata. Non funziona allo stesso modo la nostra con gli eventi spiacevoli che ci capitano nella quotidianità? Non tendiamo ad accantonare quel dolore sordo che ci provoca il pensiero della scomparsa di una persona cara? Non rimuoviamo spesso e volentieri il ricordo di una figuraccia fatta in pubblico?
Mascheroni e Shopenhauer proseguono affermando che leggere mette un freno alla nostra fantasia e che siamo sempre più circondati da letteratura di scarso valore.
Oggi come allora è sempre sostenibile la seconda di queste due affermazioni: sempre più spesso ci vengono propinati casi editoriali che non valgono un centesimo di quelli spesi per acquistarli (inutile citare titoli tanto pensiamo tutti agli stessi libri più o meno); e, sempre più spesso, si improvvisano scrittori persone che fino ad un attimo prima facevano tutt'altro mestiere. Ed hanno successo perché si sono fatti un nome nel loro campo e allora partono già avvantaggiati in quanto conosciuti ai più (anche qui inutile sprecare caratteri per elencare nomi che, come sopra, vengono in mente a tutti).
Quindi, niente da dire, in questo caso avete segnato un punto miei cari signori, ma quando affermate "che leggere paralizza la fantasia", lo riperdete subito perché, se mai, leggere la stimola.
Chi di noi lettori da fanciullo o da adulto non ha mai sognato e fantasticato riguardo ad una storia letta in un libro? Nessuno. E rispondo ad occhi chiusi, metto anche la mano sul fuoco da tanto che sono sicura di quello che dico!
Quanto al tempo da dedicare alla lettura è vero, è poco e se si potesse comprare insieme ai libri che acquistiamo, saremmo decisamente tutti più contenti. Ma questo non significa che la mancanza di tempo sia un punto a sfavore del leggere.
In relazione alla frase conclusiva "Non leggete i libri, fateveli raccontare" io posso solo dire: provate. Provate a farvi raccontare un libro e poi leggetelo e capirete da soli perché non ha alcun senso.
Sempre in rete ho trovato un altro articolo, molto interessante e molto ben scritto, che analizza la lettura passando attraverso alcuni grandi romanzi quali in Don Chisciotte, Madame Bovary, Se una notte d'inverno un viaggiatore e altri ancora.
Vi lascio il link e vi consiglio di leggerlo con calma e attenzione, perché è davvero una bella riflessione: Perché leggere, se leggere fa male?
Io vi riporto qui solo l'idea principale su cui si sviluppa tutta l'analisi, significativa per lo scopo di quanto scritto fino ad ora, e cioè che non bisogna presentare e pensare la lattura come un obbligo perché si otterrà solo una reazione opposta: il non leggere. Il messaggio di fondo che Renato Nisticò vuol fare arrivare a chi prende tra le mani il suo scritto è che "anziché inculcare il piacere della lettura nell’allievo (che è un non senso), dovrebbe porre in primo piano la relazione personale che si è instaurata fra di loro, il loro ritrovarsi gettati in una certa situazione. Dentro questo spazio emozionale e conoscitivo egli dovrebbe collocare come un dono e come un rischio l’apertura al “leggere”, cioè all’interpretare il mondo."
Leggere deve essere un piacere, un momento in cui si stacca la spina e si perde il contatto con il mondo esterno, ma non nel senso chisciottesco di perdita della ragione, semplicemente come quando ci si rilassa svuotando la mente.
Il problema è che chi non ama leggere non capisce e non potrà mai capire cosa significa questo momento di alienazione, che cosa ciò rappresenti per un amante della lettura e dei libri: "Quando io mi immergo nella lettura, abbandono momentaneamente, immaginariamente la mia dimensione, per assumerne un’altra vicaria che mi consente di vivere esperienze che non potrebbero essere mie nel corso ordinario della vita."
Questo non vuol dire affermare che solo ed esclusiamente la lettura di un libro porti a questa alienazione, però io, ad esempio, non riesco ad ottenere lo stesso risultato quando un film, forse un pochino di più quando ascolto la musica con le cuffie, ma solo perché la sparo a tutto volume e non sento nemmeno le bombe cadere.
Dicevo, poche righe sopra, che questa idea è significativa per lo scopo di quanto da me scritto fino ad ora perché non voglio, con tutte queste parole, convincere chi sostiene che i libri sono inutili e che sarebbe meglio salvare gli alberi invece che abbatterli per produrre la carta che serve a pubblicare i suddetti che si stanno sbagliando. Semplicemente ho voluto spiegarvi cosa significa per me tenere in mano quell'oggetto secondo voi inutile, cosa mi trasmette e dove mi porta.
In conclusione, ognuno di noi ha un modo tutto suo e diverso da quello degli altri per prendere le distanze dal quotidiano che, a volte, diventa troppo pesante da sopportare e questo non significa che leggere sia una malattia che porta a chissà quali conseguenze. Semplicemente è uno dei fini che si usano per arrivare ad uno stesso scopo: liberare la mente e rilassarsi (che, per inciso, non vuol dire smettere di pensare).
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