A Losanna salgo sull’InterRegio 1735 diretto a Sion. Mi getto a peso morto su uno dei sedili liberi e attendo che Sion Gare accolga il treno. La persona che mi siede di fronte sorride perché capisce la mia distruzione fisica e mentale dopo una giornata di devastanti impegni lavorativi. Dal modo in cui è svaccato sui sedili presumo che anche la sua, di giornata, sia stata altrettanto faticosa. Biondo, occhi verdi, carnagione bianco latte, dolcevita grigio scuro, pantalone nero a coste, giacca a vento color arancione-giallo-rosso-azzurro catarifrangente (so che non è un colore, ma voglio dare idea ben chiara della sobrietà) e, per non farsi mancare nulla, pseudo scarpe da città. Anche se io le definirei meri scarponi da montagna. Alta montagna. Io appoggio la testa al finestrino, cercando di non focalizzare le dannate scarpe da montagna spacciate per scarpe da città, mentre il post-adolescente castano chiaro, carnagione pallida, col roulé fumo di Londra di sera, calzone scurissimo in fustagno e dannate pseudoscarpe da città, prosegue Les nuits de Reykjavik dell’islandese Arnaldur Indriðason.
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