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Lettera

Da Shappare
Qualche giorno fa mi sono svegliata e in mansarda c'era il sole.
Così ho deciso di rimandare appuntamenti e ripetizioni per andare sul lago, da mia nonna.
La morte mi fa paura, le perdite ancora di più; mi hanno ripetuto fin troppo che la nonna non ci sarà ancora per molto, quindi ho preso Fiesty, i biscotti del panificio, la macchina fotografica e sono partita.
Persino la tangenziale era una meraviglia, verso il lago, chiazze di verde e marrone rossastro si beavano della pausa di sole. Nuvole sfilacciate fastidiosamente primaverili, uccellini felici e tuttavia sullo sfondo l'ineluttabile autunno.
Pensavo al tempo che passa, al mio inutile tempo che passa.
Poi, come sempre quando penso al tempus fugit, mi sovviene Francesco e mi trascino una sua canzone per tutto il giorno. Certo questa parla di un’altra stagione però me la sarò canticchiata dieci volte durante il giorno: ogni parola mi pareva materializzarsi per diventare descrizione del mio futile trascorrere.

 
In giardino il ciliegio è fiorito agli scoppi del nuovo sole, 
il quartiere si è presto riempito di neve di pioppi e di parole

Soprattutto là nel paese non segnalato da Google maps, tra gli argini, sei gatti e tre cani, la frittata di zucchine e cipolle, i piatti della bisnonna Rosa, come sono belli!, la sponda veronese e la malinconia di chi, guardandola, mi racconta di quando - esattamente 67 anni fa, pensa - è partita da lì con altre due donne, una barchetta e una bicicletta, sotto le bombe.
All'una in punto si sente il suono acciottolante che fanno i piatti, 
le TV son un rombo di tuono per l'indifferenza scostante dei gatti; 
come vedi tutto è normale in questa inutile sarabanda, 
ma nell'intreccio di vita uguale soffia il libeccio di una domanda, 
punge il rovaio d'un dubbio eterno, un formicaio di cose andate, 
di chi aspetta sempre l'inverno per desiderare una nuova estate...
 

 
L’unico posto in cui sono “la figlia della Maria Laura”, in cui mio cugino sui pattini con le sue amiche mi ricorda che non sono la più piccola della famiglia, non più, almeno;  si rincorrono dal cimitero fino a poggiarsi con le mani sporche sulla mia macchina blu, mentre io accompagno Fiorella e il suo bastone da mia zia, in quella grande casa rimasta senza marito.
Son tornate a sbocciare le strade, ideali ricami del mondo, 
ci girano tronfie la figlia e la madre nel viso uguali e nel culo tondo, 
in testa identiche, senza storia, sfidando tutto, senza confini, 
frantumano un attimo quella boria grida di rondini e ragazzini; 
come vedi tutto è consueto in questo ingorgo di vita e morte, 
ma mi rattristo, io sono lieto di questa pista di voglia e sorte, 
di questa rete troppo smagliata, di queste mete lì da sognare, 
di questa sete mai appagata, di chi starnazza e non vuol volare... 

Il posto in cui è più naturale pensare al volgere delle stagioni, in cui anche l’aria ti ricorda le promesse che avevi fatto a te stessa e che sei ancora lungi dal mantenere.
Poi di nuovo la strada, triste, del ritorno, screziata di rosa antico e malinconico;
le ripetizioni, il latino, i temi vuoti di coesione e coerenza, mi guardi il tema, dice la mamma che sei molto brava;
il premio a Roma ormai lontano e piccolissimo, l’illusione di poter saper fare.
Le troppe storielle senza costrutto per nascondermi e continuare ad essere bambina che aspetta i genitori fuori da scuola.
Appassiscono piano le rose, spuntano a grappi i frutti del melo, 
le nuvole in alto van silenziose negli strappi cobalto del cielo. 
Io sdraiato sull'erba verde fantastico piano sul mio passato, 
ma l'età all' improvviso disperde quel che credevo e non sono stato; 
come senti tutto va liscio in questo mondo senza patemi, 
in questa vista presa di striscio, di svolgimento corretto ai temi, 
dei miei entusiasmi durati poco, dei tanti chiasmi filosofanti, 
di storie tragiche nate per gioco, troppo vicine o troppo distanti... 

 
L’aria frizzante che pizzica il naso quando esci alle sei per andare in palestra a correre;
ho preso la scheda e mi sono messa sul tapis roulant, mi guardavo in giro stranita, non riuscivo a tenere il passo, appesantita dal pranzo e dai pensieri.
Allora sono scappata a fare la doccia, il Pres mi viene a prendere per andare allo stadio.
E poi stare lì sulle gradinate con il culo bagnato e non capire più un’altra passione che lentamente scivola via e ti incazzi con il contorno, ché il tuo amore non può essere stato così mal riposto. Non di nuovo.
I poster in camera fino a sedici anni, le figurine con mio fratello, le patatine della finale di Champions del ’96.
Mio fratello che ora mi saluta rientrando in casa con il mio cane e la sua ragazza.
Io che torno in città e cerco un parcheggio non a pagamento, corro sulle scale, controllo le mie piantine che stanno soffrendo l’autunno del nord; la mansarda buia e silenziosa, vorrei saper fumare o bere una birra.
Mi sembrerebbe almeno di godere la solitudine che ho scelto.
Ma il tempo, il tempo chi me lo rende? Chi mi dà indietro quelle stagioni 
di vetro e sabbia, chi mi riprende la rabbia e il gesto, donne e canzoni, 
gli amici persi, i libri mangiati, la gioia piana degli appetiti, 
l'arsura sana degli assetati, la fede cieca in poveri miti? 
Come vedi tutto è usuale, solo che il tempo stringe la borsa 
e c'è il sospetto che sia triviale l'affanno e l'ansimo dopo una corsa, 
l'ansia volgare del giorno dopo, la fine triste della partita, 
il lento scorrere senza uno scopo di questa cosa  che chiami  vita.

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