Il libro è il tragico monologo di una donna che aspetta un figlio guardando alla maternità non come a un dovere ma come a una scelta personale e responsabile. Una donna di cui non si conosce né il nome né il volto né l’età né l’indirizzo: l’unico riferimento che viene dato per immaginarla è che vive nel nostro tempo, sola, indipendente e lavora. Il monologo comincia nell’attimo in cui essa avverte d’essere incinta e si pone l’interrogativo angoscioso: basta volere un figlio per costringerlo alla vita? Piacerà nascere a lui? Nel tentativo di avere una risposta la donna spiega al bambino quali sono le realtà da subire entrando in un mondo dove la sopravvivenza è violenza, la libertà un sogno, l’amore una parola dal significato non chiaro. Con la prefazione di Lucia Annunziata.
Ho voluto rileggere a distanza di oltre vent’anni dalla prima volta questo capolavoro della Fallaci. L’ho fatto non tanto per la tematica, dannatamente contemporanea e struggente sino alle estreme conseguenze, quanto piuttosto per “disintossicarmi” da un certo modo di scrivere contemporaneo che dovrebbe quantomeno spingerci a riflettere sull’innegabile abbassamento culturale che sta investendo un po’ tutto il mondo editoriale. Io per prima ritengo di dovermi mettere in discussione. La prosa della Fallaci è divina, sebbene in questo testo persistano, per ovvie ragioni anagrafiche, alcuni arcaicismi che possono farci sorridere. Risulta innegabile, però, il suo modo diretto ed essenziale, ma mai banale di affrontare la narrazione. Profonda stima e ammirazione per una scrittrice vera.