Lo dicevo sempre a mio padre, quando ero piccolo, che a me piaceva il rumore che la ruota della bicicletta fa sull’asfalto. Parla, quel rumore, alle orecchie e al cuore. Ma lui mi diceva che il ciclismo è poesia solo per chi lo guarda, che la bicicletta l’avrei trovata sotto l’albero di Natale, come avevo chiesto, ma non avrei fatto il ciclista perché si fa fatica. Troppa fatica, specialmente se non sei un campione, se non hai la ricompensa della folla, del tuo nome scritto sui giornali. Mi conveniva fare il muratore, secondo lui, come suo nonno e come il suo bisnonno. O, ancora meglio, l’avvocato. L’avvocato sì. Gli piaceva tanto che io avessi un pezzo di carta per potersi inorgoglire con gli amici del bar: “Mio figlio è laureato”. Invece io ho scelto di fare il ciclista e non sono stato un campione. E questa non me l’ha mai perdonata.
La nuova stagione è alle porte e i corridori hanno in mano i pennarelli rossi per segnare, sulla carta, le loro gare, i loro obiettivi di quest’anno. E i loro occhi, forse, vedono le strisce d’asfalto che si allungano per il mondo e ci credono che là potranno trovare il paradiso, dopo aver passato l’inferno. Il mio pennarello rosso, quest’anno, è nel portapenne, lì sulla scrivania. E mi fa un po’ tenerezza perché so che, questa volta, non lo userò. Non che abbia mai tracciato i miei obiettivi con tanta fiducia: segnavo con il rosso quelle che erano le mie gare preferite, quelle che sapevo di potere fare bene, con dignità, aiutando i miei compagni. Ma sono sempre stato un ragazzo del gruppo, un gregario, forse nemmeno dei migliori. Nonostante il mio sudore, la mia fatica, il mio sforzo, il mio impegno fossero uguali a quelli del migliore. Per questo che, scaduto il contratto, nessuna squadra me ne ha proposto un altro. Per questo sono un ciclista disoccupato.
E non disoccupato come gli operai che vanno a protestare davanti alle fabbriche chiuse. Io non ho più nulla che mi lega alla mia vecchia squadra e non ho piazze dove portare i miei cartelloni di protesta. Non disoccupato come i ragazzi appena laureati. Io non ho fatto un’università di libri ma di sudore, di freddo, di gambe spezzate dalla fatica. Non sono scritti sulla carta, i miei voti: li ho lasciati sulla strada e nessuno li ha visti. Non sono un senza lavoro come gli altri, io. Perché, per chi sta sulla bicicletta, il tempo è assassino.
Questo Natale non troverò lo stesso regalo che mi fece mio padre, sotto l’albero. Non avrò più nessuna divisa nell’armadio e non chiederò più ai miei compagni le spille per attaccare il numero sulla schiena. Quest’anno, probabilmente, del gruppo non vedrò le schiene ma il lungo serpente colorato che si vede dall’elicottero di ripresa. Forse, tra un anno, qualche squadra mi rivorrà ciclista. O forse no. Forse dovrò darla vinta a mio padre e andare a fare il muratore. Ma non importa. Perché la bicicletta, quando ce l’hai dentro, non l’appendi mai al chiodo. E anche lì, con un po’ di fantasia, le bestemmie per un sacco di cemento caduto mi sembreranno le urla dei tifosi accalcati lungo una strada e la polvere del cantiere mi parrà quella delle strade senza asfalto che si amano perché sono così. Nude. Come una donna senza vestiti.