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Letteratura contemporanea e senso
Partirei da un dato di realtà: molta della narrativa contemporanea proprio non si può leggere. Mi appiglio ad un luogo comune. Le case editrici non sempre aiutano o quanto meno non tutte; assistiamo ad uno scouting il più delle volte mediocre alla ricerca dell'esordiente sapiente e fresco da spacciare come voce fuori dal coro e da promuovere come creatura geniale. Nessuna polemica, l'editoria romantica che resiste e si oppone è un'utopia.
È sulla bocca di tutti gli umanisti, pare che la letteratura sia morta, nessun genio da almeno una cinquantina d'anni e migliaia di romanzi che mettono malinconia agli intellettuali. Un lamento lagnoso sta sulla bocca di tutti i lettori. Anche sulla mia, sia inteso. L'intento che sempre più si scorge nella narrativa contemporanea è di piacere e di seguire dei canoni. Indignarsi, alla lunga, è però noioso. Ho così cercato un senso, per trovare conforto, un senso personalissimo a questo fenomeno contemporaneo dell'assenza di passione. Sia chiaro, sto generalizzando.
Così come mi è capitato di leggere dei romanzi mediocri per trama, struttura, stile, intenzioni, allo stesso modo mi è capitato di comporre degli scritti veramente brutti. Quando critico qualcuno mi piace capire la mancanza che trovo nell'altro cercandola in me. In genere i miei scritti sono brutti quando sono poco onesti. E sono brutti anche quando lavoro troppo sulle parole, sui loro suoni, sull'effetto di una frase. Sono brutti soprattutto quando la mia scrittura boccheggia in superficie, cerca delle scorciatoie, è stanca di dire. Le parole usate come ingredienti non veicolano alcuna passione. Mi tornano allora in mente alcune frasi lette anni fa ne Il discorso vivente dello psicoanalista André Green, un saggio illuminante già dal titolo bellissimo. Green indaga sulla difficoltà di farsi capire facendo riferimento a quel momento in cui la sensazione di certi stati interiori non riesce a trovare una parola su cui agganciarsi. L'affetto, ci dice, è l'elemento dell'apparato psichico che presenta più resistenze ad essere tradotto. L'essenza resta fuori dal discorso perché l'affetto mette in cortocircuito il linguaggio.
Per certa psicoanalisi la mancanza è il fondamento del linguaggio. Dalla mancanza nasce il desiderio e dal desiderio si arriva al linguaggio. La parola mamma, ad esempio, non nasce certo per la necessità di farsi intendere dall'altro proprio perché al momento in cui quel suono esce di bocca l'altro è assente. La parola nasce per colmare un'assenza. Lacan dice che l'ego, ciò che di noi è presente all'esterno, è una statua idealizzata di noi stessi, rappresenta in genere ciò che vorremmo essere o ciò che abbiamo dovuto essere ed è materia svuotata all'interno. Se si scrive a partire dall'Io le parole rimarranno vuote. Provate, è matematico. Così come se si scrive a partire dall'esterno, sovrastimando il reale, al discorso manca un pezzo. Tutto può ugualmente fluire, certa narrativa non fa una piega a livello di stile e di struttura ma, certo a mio giudizio, non porta in nessun luogo e non ha il pregio di possedere un senso.
Il senso oltre ad esserci dev'essere condivisibile. Ho appena finito di leggere il libro di Andrea Tarabbia La calligrafia come arte della guerra. Poteva essere un buon libro, peccato sia incomprensibile. Sicuramente non averlo capito è un mio limite, dicendo ciò ammetto il rispetto che nutro nei confronti della quarta di copertina a firma Moresco. Un buio fitto, cunicoli, città sotto alle città e simboli misteriosi. La pecca sta tutta nella indecifrabilità dei simboli adottati dall'autore. Un esordio razionale. Prendo come esempio l'intellettualismo del romanzo di Andrea Tarabbia per sottolineare quale pericolosa intensità di occultamento e di inganno sia racchiusa nelle nostre elaborazioni razionali.
Ma le parole ci rappresentano?
Chi scrive lotta con le parole ancor prima che con la grammatica. La struttura è una questione artigianale e creativa. Le storie sono state già tutte scritte. Cosa riempie di grazia un testo? Torno a Green, l'affetto può lasciarsi esprimere tramite il linguaggio ma la sua essenza è al di fuori di esso, ricordo Paul Ricoeur quando scrive che il linguaggio è molto spesso stravolto, ha delle significazioni complesse in cui un altro senso nello stesso tempo si dà e si nasconde in un senso immediato e concludo con Lacan: io sono ancora più sicuramente là dove io non penso. Tra le parole e le cose c'è uno scarto che rimane incolmabile. Uno scrittore dovrebbe partire da qui, dal compito arduo e ambiguo di sistemarsi in questa 'incolmabilità'.
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