Copertina del libro “Lupara nera”, Milano, Bompiani, 2009
Il titolo del libro è già una brillante sintesi del contenuto di esso: “lupara nera”; si contrappone a “lupara bianca”, l’omicidio di mafia con sparizione della vittima; “lupara” sta quindi per mafia, per omicidi mafiosi; “nera” invece, con sottile traslazione della metafora, sta per “fascista”. Mafia è fascismo insomma in un’unione indissolubile. È la storia segreta della Sicilia, e non solo di quella, dal Dopoguerra fino ad oggi. L’Autore appartiene ad un particolare profilo di storico, piuttosto raro; infatti la storiografia in genere si divide in due tipologie preponderanti; la prima, quella accademica e ufficiale; la seconda, quella giornalistica; poi c’è quella diciamo così “privata”, a cui il nostro A. appartiene.
La storia accademica è quella magniloquente e retorica, scritta dai “vincitori” e che elabora la versione ufficiale, edificante e legittimante. La fanno in genere storici di professione, sostanzialmente accademici, professori universitari; l’accademico si sente investito naturalmente di un ruolo istituzionale, quindi tende, anche nei casi in buona fede, a disegnare una versione edulcorata e consolatoria. Quando poi non si aggiungano i motivi inconfessabili, quelli della carriera universitaria, poiché spesso gli accademici sono a quel posto, come si sa, non tanto e non solo per meriti culturali, quanto per denominazione da parte dei politici; di quelli vincenti in quel momento. Così questi storici “ufficiali” sono naturalmente conservatori e “filogovernativi”, e si credono talvolta anche un pilastro dell’ordine costituito e della stabilità istituzionale; e se ne compiacciono. Una specie più sommessa ed appartata è quella degli accademici “eruditi”, quelli che spaccano il capello in quattro su questioni di nessuna rilevanza, spesso confinati in orizzonti localistici; questa storia per sua natura non irrita e non provoca nessuno.
La storiografia dei giornalisti non è propriamente storia, cioè il tentativo di ricostruire la “verità” del passato, ma è polemica legata all’attualità condotta “con altri mezzi”: nella storia si cercano elementi che possono essere letti come specchio del contesto contemporaneo, così da spostare il dibattito politico, spesso settario, su uno sfondo pseudo-distante ed autonomo. E’ una storia sommaria e schematica, che trasceglie ciò che le serve, spesso forzando le cose, e che della vera storia ignora l’elemento fondante,e cioè l’interesse per la specificità del periodo indagato. Insomma, più che di libri di storia si tratta di “pamphlet”.
Poi c’è la storiografia “privata”, che non risponde a nessuno se non a se stessa. Si tratta di storici che non hanno ruoli istituzionali né collocazione “professionale”, nel dibattito politico contemporaneo, e che sono mossi dalla loro specifica “vocazione”. È una storia che cerca la “ verità” nei particolari, nelle vicende reali, nei personaggi in carne ed ossa: che spesso è una verità di “collusioni”, di alleanze inconfessabili, di violenza, di machiavellismi spregiudicati in dispregio di qualunque principio; è la storia vera, fatta dagli uomini così come sono e non come dovrebbero essere; è per sua natura antienfatica ed anti idealizzante. Sono gli storici privati che fanno “il lavoro sporco”. Certo anche loro sono mossi da obiettivi, da tesi; in definitiva si tratta, come disse il Croce, di “storia”, non di “cronaca”. Del resto niente è asettico ed impersonale nell’uomo, nemmeno la ricerca scientifica,con buona pace dell’ideologia del Positivismo. La differenza con l’ideologia settaria e “a tesi” è il metodo: al lettore vengono forniti gli elementi di cui si sostanzia la lettura particolare operata dallo storico, così che il lettore possa verificare ed anche dissentire e ricostruire diversamente il senso dei fatti. In sintesi, ciò che distingue la storia “privata” da quelle ufficiali “a tesi” è che la “tesi” è in genere raggiunta alla fine del percorso di ricerca, e non è una pregiudiziale, il libro è l’espressione di una ricerca, e non la dimostrazione di un assunto già conosciuto; un po’ come è la “filosofia” rispetto alla “teologia”. Tutta la grande storiografia del passato, del mondo classico, è fatta da storici “privati”; così nel mondo greco-romano; gli Erodoto, i Tucidide, i Livio (sì, anche lui) i Sallustio, i Tacito…Oggi questa specie di storici è molto più rara, perché per intraprendere tale via abbisognano risorse economiche proprie, e i “gran signori” in vena di un “otium” altamente nobile non sono oggi moneta corrente. Perciò spesso i “piccoli signori” per perseguire il loro obiettivo sono costretti ad investire, in”soldoni” veri, del proprio, con evidenti sacrifici. Spesso poi, a fine percorso, ottengono la “riprovazione” sia degli storici ufficiali, sia della “politica” che del moralismo dell’opinione pubblica, se non li si persegue addirittura con strumenti giudiziari. Per questo lo storico “privato” è merce rara, e per questo va “protetto” e garantito. Il vantaggio per i lettori e per l’opinione pubblica è che in genere il loro lavoro è “rivelatore”, e spiega ciò che nelle storia ufficiale era rimasto non spiegato, “sommerso”, “ipogeo”, come ama dire Casarrubea.
Così alla “grande storia” si contrappone la “piccola storia”, quella di uomini e fatti reali, e non di epopee idealizzate. Con la “piccola storia” si scoprono personaggi, trame e complotti, alleanze insospettabili, spietatezze e crimini, che presto dimostrano come la vera regia degli eventi storici sia ben altra che quella “ufficiale”, e ufficialmente affidata agli organismi istituzionali e ai rappresentanti del popolo come vuole la democrazia. Anzi questo livello occulto paradossalmente si è accentuato con l’avvento delle democrazie moderne; infatti nelle epoche precedenti il potere dispotico poteva apparire tale alla luce del sole, perché di quel tipo erano gli ordinamenti politici. Oggi invece esso, non più legittimo, è costretto a celarsi dietro la facciata della democrazia e a moltiplicare gli sforzi per colludere i decisori ufficiali e manipolare opinione pubblica e consenso: e questo della democrazia svuotata è uno dei problemi drammatici della contemporaneità, e in ispecie in una “civiltà” di massa, come la cronaca di questi giorni ci mostra.
Questo libro di Casarrubea e Cereghino è espressione esemplare di questa “piccola storia”, ricostruita in uno dei “ luoghi” (anche temporali” deputati per eccellenza a tale politica occulta e inconfessabile: la Sicilia di fine della Seconda Guerra Mondiale e dell’avvio del Dopoguerra. Una Sicilia che risulta presto non essere un’area isolata e marginale, ma il vero fulcro della recente storia d’Italia e di tutte le sue nefandezze: una Sicilia “laboratorio”, ambito delle alchimie più imprevedibili e sconcertanti, visto che è stata resa da tempo “terra di nessuno” e porto franco per “scorribande” indecenti; luogo dove si incontrano le coordinate non solo del futuro assetto dell’Italia uscita dalla guerra, ma della politica mondiale.
Emblema della Decima Flottiglia Mas
All’inizio del ’43, quando le sorti della guerra apparivano ormai segnate, (il governo Badoglio si sarebbe insediato di lì a poco), si attendeva lo sbarco alleato appunto in Sicilia; qua si raccolsero tutti gli irriducibili del Fascismo, futuri repubblichini e della “Decima MAS”, personaggi della gerarchia politica ed amministrativa che si erano macchiati di violenze e delitti efferati: questi cascami intendevano coinvolgere i potentati locali, e con essi la popolazione, per resistere agli Alleati.
Poi le cose andarono come andarono.
Vennero gli Alleati, organizzarono il nuovo ordine. Allora accadde una cosa “inaudita”: Gli alleati per ottenere intanto il controllo del territorio, poi per fronteggiare quello che ancora a guerra non conclusa si presentava come il vero avversario, reclutarono tra le loro file i loro “nemici”, quei fascisti che ufficialmente combattevano e perseguivano per i loro crimini e giudicavano nei tribunali di guerra.
Questo perché il “vero avversario” era, come è evidente, il Comunismo, incarnato nell’U.R.S.S. staliniana: e, insieme ad esso, le rivendicazioni economiche e sociali delle classi più povere che minacciavano i privilegi delle oligarchie del Capitale in un moto inarrestabile fin dall’inizio del secolo, motivo questo che era stato fondamentale nascita dei Fascismi nel Novecento. Così, a parte la questione “solo” politica di dittatura e democrazia, fascisti e liberali eran figli della stessa madre.
Attorno a questo grumo reazionario si raccolsero tutte le forze anticomuniste del tempo, compresi il Vaticano e la nascente Democrazia Cristiana. Registi ditale operazione furono i Servizi americani nella persona del famigerato Angleton. Per tale operazione fu utilizzato il gangsterismo americano di origine italiana perché creasse un ponte con la mafia siciliana, in effetti le prove di tali alchimie erano state fatte già prima della Guerra con personaggi della “malavita” come Genovese. Il nuovo asso nella manica è ora però Lucky Luciano, a cui spetta il compito di organizzare la sparsa e campagnola mafia dei feudi e modernizzarla e unificarla: è Lucky Luciano che crea Cosa Nostra, la mafia moderna con i suoi traffici internazionali, la collusione con la finanza e la politica; e questo con la benedizione degli Americani.
Così nasce quella che il gangster regista chiamava “la Santissima Trinità”, l’ unione cioè di Mafia, Neofascisti, Servizi Segreti,; questi ultimi americani, a cui quelli italiani fanno da supporto e da esecutori e da galoppini. La Chiesa benedice, ed appoggia con uomini suoi; si sa delle connivenze di Pio XII con il Nazismo; il libro descrive l’azione di uomini di Chiesa nell’organizzare la fuga dei gerarchi e criminali nazisti nell’Argentina di Evita Peron: famigerati in questo senso un benedettino Biondi e un “padre Maurizio” francescano che a Genova organizza gli imbarchi per l’ America del Sud.
Quando, nel ’46, nasce la Repubblica, comincia l’angoscia del “sorpasso”, cioè che le Sinistre divengano maggioranza, De Gasperi è spinto a passare da un governo di unità nazionale ad un monocolore. Sturzo vien tenuto lontano, vista la carica ideale dell’uomo e la “vocazione” sociale del suo movimento. Togliatti, con grande saggezza politica, “capisce” ed “accetta” senza esasperare gli animi.
Quando, nel ’47, alle elezioni regionali siciliane vince il Blocco del Popolo, si dà bando agli indugi; si utilizza pure il banditismo per la prima strage terroristica, prototipo di tutte le future stragi di Stato: Portella della Ginestra; anche i vertici delle Forze dell’Ordine concorrono al piano eversivo. Il Separatismo sarà poi la leva per “ricattare” le nuove forze democratiche nazionali. Intanto la D.C. si attrezza per spostare i voti siciliani delle fasce popolari dalla loro naturale collocazione a sinistra a quella conservatrice; e ciò tramite il clientelismo, sofisticato strumento di dominio della modernità. Questo impedirà per lungo tempo il “sorpasso”, ma, ogni volta che tale rischio si profilava, c’era un incombere di colpi di stato affidati ai soliti personaggi e alla solita alleanza, vertici militari, Servizi, parti delle istituzioni e della politica, mafia, fascismo, Chiesa. Furono allora usati come mezzo di dissuasione la strage di popolo, e il terrorismo. E’ sorprendente vedere come oggi tale quadro sia ancora pertinente e dirimente per interpretare gli ultimi misteri della storia d’Italia, quali l’uccisione di Falcone e Borsellino; altro che solo i “Corleonesi”. In questi giorni si cerca l’identità del “signor Franco”, uomo dei Servizi onnipresente in ogni fatto di mafia rilevante della nostra recente tormentata storia.
Tutto questo, e molto altro, è detto con un quadro esaustivo ed esauriente in questo nuovo libro di Casarrubea e di Cereghino. Esso viene a integrare, a completare, e a vedere in una prospettiva nazionale e sovranazionale, altri libri, altre rivoluzionarie indagini già condotte dall’Autore su particolari aspetti delle vicende del Dopoguerra. Ciò è stato possibile grazie alla desecretazione degli archivi di Stato in Inghilterra e in America. Così molte delle precedenti intuizioni dell’A. risultano fondate e provate, e vengono ricondotte ad uno sguardo globale. Quanto al fronte contrapposto, quello delle Sinistre, si aspetta che la Russia attuale segua l’esempio di Inghilterra ed U.S.A. e faccia altrettanto con i suoi archivi. Per l’Italia, come è intuibile, non c’è da alimentare nessuna ragionevole speranza.
Se le desecretazioni citate sono condizione necessaria per la sintesi così organica e compiuta operata in questo libro, non sono però condizione sufficiente: bisogna aggiungere l’ampiezza e l’acutezza di sguardo dell’A., evolutesi in anni di indagini e di “scavi” come testimonia la lunga lista di libri da lui precedentemente scritti.
In effetti questo libro è un ologramma: ologramma è quando vediamo da vicino persone vestite di abbigliamenti di due o tre colori, e che ci appaiono solo degli individui; se il punto di vista però si allontana e comincia ad emergere la moltitudine, ad un tratto i colori diversi degli abbigliamenti divengono un disegno, una scritta. All’inizio veniamo quasi travolti da una profluvie di dati e abbiamo la sensazione di smarrirci. Poi, ad un tratto emerge nitido il disegno, e la sua nitidezza è completa. Allora quella messe di informazioni si colloca, come per miracolo, docilmente al posto che le spetta cosicchè anche il più piccolo elemento acquista un suo imprescindibile significato e necessità. Lo stile è diretto, semplice e asciutto, mai intellettualistico od oscuro; è un ottimo esempio di comunicazione divulgativa. Sono evitate le intrusioni soggettive e la retorica: parlano i fatti. Tanta chiarezza espositiva non mostra lo sforzo per ottenerla, anzi appare agile e fluida, “naturale” anche nei passaggi sintattici più ardui. Il tono è impersonale come si addice ad uno storico, ma la superficie del discorso è continuamente increspata da una tensione etica e civile che la sottende, e le dà non solo evidenza argomentativa ma anche “passione” e senso.
Però, rispetto alle prose precedenti, oggi tale intensità civile si è corredata anche di punti di ironia, che con il distacco che essa comporta non attenuano, ma anzi esaltano la valenza scandalosa e meschina della realtà osservata (vedasi a pag. 258).
Così questa opere di storia acquista anche un inaspettato valore letterario: è un affresco di quell’Italia del passato, così simile a quella del presente, nei suoi aspetti più perversi, più deteriori, più ambiguamente “paralleli” alla realtà evidente. Ne emerge un mondo di avventurieri di mezza tacca, di lenoni, di millantatori, di esaltati, di megalomani, di fanatici, disadici insieme feroci, vigliacchi ed infantili, di teorizzatori ed ideologi da retrobar e da avanspettacolo, di pezzenti carichi di onorificenze, di un’accozzaglia di abbigliamenti paramilitari e di psicologie disturbate. Si delinea un mondo grottesco, sbozzato con pochi tratti sapienti, come in un fumetto di Ugo Pratt.
E’ un mondo di macchiette, comico e ridicolo se non fosse tragico. Un mondo i cui inquilini, protagonisti o comparse che siano, non hanno mai nessuna grandezza; nessuna.
Negli anni trascorsi per spiegare la strategia occulta degli aspetti indecenti e feroci della recente storia d’Italia si ipotizzò l’esistenza di un “grande vecchio”, una singola mente diabolica. Nulla di tutto questo. Nessuno di quei personaggi aveva una statura non dico diabolicamente titanica, ma appena umana; mediocri, meschini, grigi e banali nella vita quotidiana. Viene in mente la “banalità del male” di Hannah Arendt. E’ il sistema, l’agglomerato di interessi,di dominio e di potere, perverso e terribile, ancorchè si serva, ed incastoni in sé, persone del tutto piatte ed opache: e questa è la conclusione, insieme consolante e disperante, che se ne può trarre.
Rimane da farsi un’ultima domanda: questi mestatori, i loro maneggi e i loro delitti, hanno il potere di cambiare la storia?
A mio parere si illudono: la”grande” storia procede per flussi e processi molto più vasti e grandiosi, in cui sono attori i cambiamenti dell’economia, l’evoluzione delle idee, il maturare delle consapevolezze istituzionali, gli scontri di interessi collettivi che spingono interi popoli, e intere parti di mondo,gli uni contro, o anche a fianco, di altri.
Così queste persone soffrono di quella che Marx chiamava “sindrome della mosca cocchiera”: una mosca attaccata alla criniera di un cavallo al galoppo dice compiaciuta: “Sono io che lo guido”.
Ciò non toglie che a livello di “piccola” storia, in angoli e piccole parti di mondo, questi maneggi possano creare guasti irreparabili, nella convivenza civile e nelle coscienze; come è accaduto per questa nostra sventurata terra di Sicilia in cui, quanto più il tempo procede, tanto più sembra allontanarsi il miraggio di un riscatto.
Nicola Bonello