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Lezioni americane — #2 : la scoperta del comune sulla East Coast

Creato il 27 aprile 2012 da Fabry2010

Pubblicato da Giovanni Nuscis su aprile 27, 2012

Da UniNomade

di ANNA CURCIO e GIGI ROGGERO

Il 25 aprile il debito studentesco raggiungerà negli Stati Uniti i mille miliardi di dollari. La bolla sta per scoppiare, sostengono molti. Dentro, come in tutte le bolle finanziarie, ci sono le vite di milioni di giovani e precari. Per costoro il debito è una forma di ipoteca permanente sulla costruzione del futuro e di canalizzazione del percorso di studi, ed è al contempo una cambiale realistica, ancorché perversa, per accedere ai bisogni sociali. Occupy Student Debt festeggerà il 25 aprile come giorno della liberazione dal debito, incontrandosi nell’ormai conquistata Union Square per marciare fino a Wall Street. In soli pochi mesi la campagna per la cancellazione del debito studentesco nata da Zuccotti Park può già misurare un primo importante risultato, cioè una breccia nel regime morale del capitalismo finanziario: inizia a incepparsi il dispositivo di individualizzazione e colpevolizzazione del debitore.  “Già negli ultimi anni” spiega uno degli organizzatori della campagna, “si è registrato un lento ma continuo cambiamento nel comportamento degli studenti indebitati. Prima reclamavano con i docenti il rispetto dei loro diritti come consumatori (pago perciò ho diritto a un buon servizio), mentre adesso iniziano a identificare nell’amministrazione dell’università la loro controparte: perché dobbiamo indebitarci per permettere loro di vivere di rendita e curare i loro affari?”. Inizia a sciogliersi, così, una delle principali mistificazioni della controrivoluzione neoliberale: non è stato il lavoratore a diventare consumatore, ma il consumatore a essere messo al lavoro.

Si può dunque parlare di un discorso politico di Occupy, e se sì è in grado di fare egemonia? Nessuno può parlare a nome di Occupy, ci spiegano, ma allo stesso tempo tutti parlano come Occupy. Il rapporto tra movimento e produzione di sapere non va allora ridotto agli interventi delle “star”, come vengono chiamate: il rapporto tra intellettuali e militanti rimane spesso problematico, ma c’è forse una reciproca trasformazione. É oggi possibile essere intellettuali critici senza essere militanti? E ancora, esiste intellettualità al di fuori del comune? Ecco le questioni che Occupy ha fatto penetrare dentro l’accademia. Nel frattempo, seguendo il movimento, la sinistra del Partito democratico si propone di formare 100.000 persone per la disobbedienza civile (“Move On” è il nome della campagna). Un tentativo di cooptazione o un’incipiente occupazione del Partito democratico?, ci si interroga dalle parti di Union Square. Forse entrambi, ma sicuramente se vogliamo parlare di vocazione egemonica, troviamo qui uno dei tanti segni tangibili. Obama e il suo staff ci si dovranno confrontare, perché il “99%” è a questo punto una controparte più temuta e irriducibile di un Partito repubblicano che pare ormai rassegnato alla sconfitta, tanto che – sostengono in diversi – il suo candidato una vittima sacrificale che suscita tiepidi entusiasmi. O addirittura, ironizza una giovane giornalista precaria: “perché i repubblicani dovrebbero sostenere un candidato del genere quando hanno già Obama che fa le politiche che piacciono a loro?”. Mentre del Tea Party, dopo l’irruzione sulla scena di Occupy, non vi è quasi più traccia.

Tra gli afro-americani, tuttavia, il consenso per Obama non sembra essere radicalmente diminuito. É un consenso che va al di là del presidente americano e delle sue politiche, per molti è un significante utilizzato e riempito dall’affermazione di uguaglianza e libertà dei neri. Lo vediamo a Baltimora, dove gli afro-americani sono il 70% della popolazione (se si aggiunge un 10% di latinos regolari e i tanti senza documenti, oltre all’immigrazione asiatica, i bianchi risultano una piccola minoranza). La transizione post-industriale della città ha lasciato per strada alti tassi di povertà e falliti progetti di gentrification. I tanti condomini costruiti rimangono in larga parte disabitati, la bolla immobiliare non si è gonfiata e i bassi prezzi delle vecchie case hanno attirato molti pendolari che lavorano nella vicina Washington. I settori trainanti sono oggi il turismo del fine settimana legato al porto e ai centri commerciali sorti nei suoi pressi, ai servizi, all’industria sanitaria, alla ricerca e all’università (la prestigiosa John Hopkins). Tra capitalismo cognitivo e povertà non vi è affatto contraddizione.

Qui l’occupazione della piazza è durata cento giorni e cento notti, prima di essere sgomberata dalla polizia. La sua composizione è prevalentemente working class, all’inizio bianca e poi per almeno la metà nera. “Ho partecipato a vari incontri con le comunità afro-americane,” racconta un’attivista del bookstore militante Red Emma di origini mediorientali, “inizialmente si lamentavano della composizione del movimento. Ma siete andati a vedere com’è?, abbiamo chiesto. Quando infatti hanno iniziato a partecipare attivamente, la situazione è cambiata”. E la May Day sarà una tappa resa ancora più importante dal rapporto con i sindacati locali e con i workers’ centers, che organizzano soprattutto i pulitori dello stadio e le domestic workers, prevalentemente afro-americani e migranti.

Anche nella vicina Filadelfia si aspetta il primo maggio. Girando per la città è possibile osservare le stratificazioni del lavoro migrante: del quartiere italiano, ad esempio, rimane soprattutto il brand, ora è popolato da latinos e asiatici. Gli italiani, ormai arrivati alla quarta generazione, reinventano mitologie di appartenenza e supposte tradizioni, parlando un’improbabile lingua natia e nutrendo la propria essenza con l’“originale” chicken parmigiana. Dopo lo sgombero abbastanza violento e con arresti di fine novembre, la zona di downtown che era stata occupata è adesso recintata per dei presunti lavori, anche se non è dato sapere di che cosa si tratti. Dentro Occupy si è impegnato il collettivo del Wooden Shoe, la storica libreria radicale fondata nel 1976, benché i suoi attivisti (per continuare a usare il termine soft che, alternativo alla “vecchia” definizione di militanti, è imposto al gergo politically correct dei movimenti) abbiano avuto qualche iniziale diffidenza e successivo dubbio.

Ovunque, in ogni caso, la domanda è la stessa: come questa nuova composizione del lavoro vivo può scioperare, ovvero occupare lo sciopero generale? Come far convergere – non sul piano dell’alleanza, ma dell’incontro delle soggettività – Occupy Wall Street, le organizzazioni dei migranti e i militanti sindacali? Di questo si discute, qui come in Europa. É impressionante la comunanza di linguaggi e problemi, di materialità soggettiva e densità di discussione: lo verifichiamo all’incontro seminariale di New York, in uno spazio nel ventre di Wall Street, in preparazione della May Day. Quando diciamo, ad esempio, che non c’è nulla da difendere, che l’alternativa al privato non è il pubblico ma il comune, ci si capisce immediatamente, senza bisogno di esempi. La sfida di Occupy è posta su un piano immediatamente costituente, da qui si parte. Chi afferma il contrario, ci spiegano, non capisce o sta da un’altra parte. Nelle narrazioni e nei dibattiti, emerge con pienezza la forza di quello che si sta costruendo: “a Zuccotti Park o a Union Square si sono create le zone degli occupanti fissi e degli homeless e quelle della cosiddetta ‘intellighenzia’; ma sono questi ultimi a rappresentare il movimento, vi possono essere contrasti e problemi, ma siamo tutti insieme”. Non è un movimento banalmente inclusivo, ma capace di comporre le differenze. Ascoltando si può davvero capire come il comune sia, innanzitutto, l’uscita dalla solitudine, la pratica di scoprire che solo nel rapporto si produce la singolarità. Continuiamo a imparare dalle lezioni americane. La May Day è già iniziata e, c’è da scommettersi, non si esaurirà il primo maggio.

 


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