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Lia Albricci, Spegnete la luce, per favore

Creato il 02 dicembre 2010 da Fabry2010

Lia Albricci, Spegnete la luce, per favore

Questa è una storia gotica, se avete voglia di leggerla, per favore, spegnete la luce

Ma voi lo sapete davvero perché di notte lasciano accese le luci di alcune botteghe? Naturalmente, sì certo, è evidente, per motivi di sicurezza, è un deterrente per i malintenzionati, perché i possibili clienti possano guardare le vetrine anche se il negozio è chiuso, perché se no le strade sono troppo buie e le città sembrano disabitate, può succedere persino che si dimentichino accese, le luci, qualche volta, oppure non so, non ne ho idea, sai, la gente racconta un sacco di cose strane, dicono che se le luci sono spente possa accadere che…, mi sembra di ricordare di una volta in cui…

Samuel J. Blackwell, una fredda sera di dicembre del 1879, dopo aver spolverato con la falda della sua giacca il vecchio tavolo di quercia dove erano appoggiati i suoi tesori più preziosi, dopo aver agganciato l’imposta di legno e spento la lampada, uscì dalla porta della sua bottega, considerando malinconicamente come quel luogo dove aveva passato la maggior parte della sua vita e dove, con un po’ di fortuna, avrebbe continuato a rimanere per il tempo che gli restava, la sua bottega appunto, sembrasse sempre avvolta in una specie di foschia polverosa, quando pioveva forte come quella sera o quando il sole batteva sul vetro opaco della vecchia canonica della strada di fronte e quello scintillio lontano convogliava un po’ di chiarore riflesso sulla sua piccola vetrina.

Non che questo succedesse spesso, forse dieci volte all’anno, la piccola strada di Londra, appena dietro il teatro, buia anche nei giorni sereni, stretta tra case alte, tortuosa e malamente acciottolata, era simile a tante altre piccole strade, con un rigagnolo di pioggia sporca al centro e un paio di lampioni fiochi, scolorita da quella patina di grigiore e solitudine che il tempo conferisce ai luoghi poco frequentati o dimenticati delle antiche città. Non chiedetemi il nome della strada, è inutile, non c’è più, le città cambiano nel tempo, insieme alle esigenze di chi le abita, non c’è più la strada, non c’è più la casa, non c’è più la bottega, anche di Samuel J. Blackwell non si seppe più nulla, è rimasta soltanto la sua storia abbandonata, anche se ogni tanto qualcuno la tira fuori dalle ragnatele polverose della memoria, dove si insinuano fatti e ricordi e storie lontane nel tempo che rimangono appoggiate lì, le une sulle altre, come vecchie lenzuola ingiallite che nessuno scuote più.

Ma la storia che abbiamo letto ci racconta che pioveva forte quella sera, di notte sarebbe venuta la neve, Samuel J. Blackwell andava a comprarsi la sua magra cena e camminava in fretta rasente ai muri sotto le grondaie sporgenti, cercando di ripararsi dalla pioggia che il vento gelido gli spingeva sul viso e rimpiangendo il pesante mantello che gli era stato rubato nella taverna vicino al ponte e che i suoi magri guadagni non gli permettevano ancora di ricomperare. Giunse vicino al teatro, rari passanti si affrettavano verso le case o le insegne delle taverne, nessuno voleva restare per strada in una notte simile, stringendosi addosso la vecchia giacca cercò istintivamente il rigonfiamento pesante della chiave e le poche monete raccolte prima di uscire, non c’erano nessuna delle due, si fermò sbigottito nella rientranza di un portone, gli venne in mente l’ubriaco che l’aveva urtato poco prima e che era scomparso arrancando tra gli scrosci di pioggia come risucchiato dal buio, pazienza per i soldi ma la chiave no, la chiave no, si ripeteva disperato, non sapeva dove avrebbe potuto trovare riparo, quella notte e ancor più fu spaventato dall’idea che qualcuno l’avesse seguito e, raccolta o rubata la chiave, potesse impadronirsi dei suoi tesori, oppure anche soltanto mettere sottosopra e sporcare, violare con mani sudicie e indiscrete quell’ordine amoroso e intelligente in cui viveva insieme agli unici veri amici della sua esistenza solitaria.

Arrivò infradiciato e ansimando alla porta, si appoggiò al battente incurvato dell’imposta e si guardò intorno, smarrito, poi la vide là per terra, sul selciato che ribolliva sotto la violenza della pioggia, incastrata tra i ciottoli scuri, la grossa chiave di ferro, la chiave della sua bottega e del suo destino. Con le mani tremanti e bagnate aprì a fatica la serratura rugginosa, abbassò la maniglia ed entrò nel buio del piccolo locale, mentre avvertiva il sollievo di essere al riparo dal vento e insieme si chiedeva da dove venissero quegli strani rumori che aveva sentito appena schiusa la porta, qualcosa di duro e spigoloso lo colpì ad una tempia e lo abbatté inerme sul pavimento di pietra.

Noi non sappiamo, ma neanche Samuel J. Blackwell seppe mai, quanto tempo rimase per terra. Mentre rinveniva sentì di nuovo quegli strani rumori che aveva percepito entrando, un raspare frettoloso sugli scaffali e un disordine rumoroso nel loro contenuto, fruscii crepitanti come lo sfregamento di vecchie foglie secche, frasi musicali e brani incompiuti, borbottii e piccoli tonfi, insieme a suoni sommessi e interrotti come di molte persone che parlassero tutte insieme piano piano, piccole voci roche e spezzate, brevi gridi sottili che si trasformavano in sibili fruscianti, mentre l’aria della stanza era intessuta e percorsa da un vorticare di folate di vento prodotte da oggetti in movimento che sbattevano di volta in volta sul soffitto o sulle pareti, non con violenza, ma come una danza di spostamenti e suoni che avvolse Samuel J. Blackwell in una bolla d’aria, gli sembrò di essere stato rinchiuso in una di quelle magiche sfere di vetro che, capovolte, lasciavano cadere una candida nevicata danzante sopra una miniatura della cattedrale di San Paolo, tante volte le aveva ammirate nella vetrina dell’antiquario vicino al teatro…

Svenne di nuovo, al suo secondo risveglio, mentre lentamente tornava la coscienza della vita, si accorse che, pur nel buio, i rumori spostandosi producevano una strana luminescenza che, se proprio non illuminava la scena, la rendeva almeno intelligibile.

Con l’acutissima percezione della realtà che si ha nei sogni, dove le situazioni più strane e diverse coesistono nel dipanarsi della vicenda con innocente normalità, Samuel J. Blackwell “capì” immediatamente cosa stava accadendo e provò quasi una sensazione di stupore per non aver capito prima che tutto quello che vedeva era “normale” che accadesse, per non aver pensato che fosse quasi nella logica delle cose che risultasse possibile, in realtà l’aveva sempre sentito ed immaginato dentro di sé, anzi aveva addirittura sperato che potesse accadere, ebbe la sensazione fulminea di essere finalmente arrivato al centro delle cose, là dove stava il segreto della verità scaturita dal dubbio che l’aveva inseguito per tutta la vita e cioè che quanto era scritto e disegnato e raccontato nei suoi libri poteva essere reale e possibile e veritiero, quei segni stampati sulle pagine corrispondevano a creature dotate di voce e capacità di movimento, di emozioni e di principi etici, di qualità intellettive e persino di genialità, le storie inventate avevano una vita propria e poi, perché inventate, se erano state scritte potevano anche essere vere, forse che si poteva escludere a priori che al mondo esistesse o fosse esistito o sarebbe esistito qualcuno a cui potesse accadere una di tutte quelle storie o era assolutamente improbabile immaginare chissà, per esempio, che Isacco Newton potesse aver sognato Aristarco di Samo la notte prima di veder cadere la famosa mela?

La dimostrazione di come tutto ciò fosse evidentemente possibile era davanti ai suoi occhi attoniti: i suoi libri, tutti i suoi libri si muovevano su e giù per gli scaffali e le mensole, compivano brevi voli nell’aria per spostarsi sul tavolo o nella vetrina, alcuni placidamente e con movimenti lenti e dignitosi, altri velocemente, quasi frettolosi, qui sembrava si stringessero tra loro per comunicare meglio, là si isolavano o si disponevano a coppie, come se quel più lento accompagnarsi o stare insieme fosse una precisa esigenza di scambi maggiormente approfonditi.

Insieme ai libri, mescolate e compenetrate a loro, congiungendosi e sciogliendosi come una sarabanda, volteggiavano nell’aria tra i fogli e le pagine smosse migliaia e migliaia di figure di uomini e di animali di tutte le razze, di tutte le età e di tutte le epoche e nonostante lo spazio della piccola bottega sembrasse dilatato all’infinito per accogliere tutte quelle presenze i confini familiari delle sue pareti erano uguali a quelli tra cui era sempre vissuto.

Quello che non capiva proprio come potesse accadere era il suo riuscire a distinguerli gli uni dagli altri e a comprendere l’insieme delle storie, le vicende separate di ciascun personaggio, la vicenda umana dello scrittore e da ultimo, prodigiosamente, tutto quello che della personalità e della storia dello scrittore era rimasto in ogni singola storia e in ogni singolo personaggio, perché la cosa stupefacente era che i libri erano insieme gli oggetti su cui erano stampate storie, illustrazioni, dati scientifici, cioè dei contenitori di forme, dimensioni, materiali differenti e contemporaneamente le storie, le illustrazioni e i trattati scientifici, sembravano avere una loro esistenza autonoma, come se riuscissero a materializzarsi al di fuori dei limiti dei loro confini fisici.

Dapprima non vide volti e non udì voci precise e distinguibili, ascoltava, come dire, con l’anima e raccoglieva in sé quasi con amore ogni figura e ogni storia, riconoscendoli ad una ad una come amici di antica data, anche figure, musiche, storie e antichi saperi che erano esistiti, se lo erano veramente, migliaia di anni prima della sua nascita.

Piano piano, seduto sul pavimento, incominciò a distinguere le voci e i volti, anche se non li aveva mai visti né ascoltati perché aveva soltanto letto di loro, erano proprio come se li era immaginati, come aveva pensato che potessero essere e mentre li riconosceva era sicuro che il loro aspetto fosse quello autentico, quello che era scaturito dalla nascita di quegli uomini o dalla fantasia degli autori che li avevano creati.

Quindi non gli sembrò affatto strano osservare che i severi profeti della bibbia accoglievano come fratelli gli storici nati secoli dopo, gli antichi astronomi egizi conversavano con i grandi scienziati dell’epoca dei lumi, i versi dei poemi più famosi si disponevano in ghirlande aggraziate intorno alla lampada spenta accogliendo tra loro strofe di semplici canzoni, brani di musica sacra si piegavano dal pentagramma per confondersi con melodie più profane, poté vedere che le vele tese o lacerate delle antiche navi veloci comunicavano con le guglie e le torri delle grandi cattedrali e che i marosi gelati e ruggenti degli oceani si scioglievano in piccole onde trasparenti per accarezzare colline boscose e prati fioriti.

C’erano colori nell’aria, una quantità di colori e di sfumature quali non aveva mai potuto sognare, le vesti delle figure roteanti, quadri e dipinti famosi o dimenticati, i cieli dei paesaggi e visioni e immagini di mondi mai contemplati prima, la natura variegata e bellissima che usciva strisciando dalle pagine e si dispiegava come un immenso drappo intorno alle figure, animali mitologici e sconosciuti, musiche suonate da tutti gli strumenti possibili, canti magnifici di uomini e di uccelli che riusciva ad intendere separatamente anche se risuonavano tutti insieme, nello stesso brevissimo tempo contratto.

Vide la violenza dei fratelli sui fratelli, vide le guerre e le malattie, vide la miseria e la morte strisciare sugli uomini e abbatterli, come steli d’erba e quei tragici specchi di milioni di esistenze gli procurarono un gelato terrore, ma anche se avrebbe desiderato non vedere, capiva allo stesso tempo che facevano parte della danza della vita che si avvolgeva intorno a lui, vide quanti uomini giusti si erano adoperati per eliminarle e quanti avevano invece lottato solo per il loro bottino, vide quanto era stato fatto per cambiare e migliorare la vita del mondo e tutto quanto ancora era da fare, capì che gli uomini forse non sarebbero cambiati mai, ma la speranza volteggiava anch’essa tra le figure danzanti.

Vide la mole immensa di libri che erano stati scritti e quelli che sarebbero stati scritti in futuro ed erano così tanti che si sentì rassicurato, vide come si muovevano tra gli uomini e l’uso che gli uomini facevano di loro, li vide innanzitutto letti e poi amati, denigrati, studiati, bruciati, ritrovati, ricomposti, restaurati ed abbandonati, regalati e dimenticati, vide un mondo lontano davanti a sé dove le parole dei libri entravano in scatole illuminate, perdevano il loro aspetto consueto ma conservavano la loro essenza, vide che volavano in piccoli dischi luminosi ed iridescenti e sperò, con innocenza, che si sarebbe letto per sempre, perché, nonostante la violenza, la miseria, la morte, le malattie e le guerre qualcuno avrebbe sempre avuto la passione per raccontare una storia o informare di una scoperta o riflettere sulla sua vita e avrebbe voluto comunicarlo ad altri.

Vide ancora infinite altre situazioni strane ed inimmaginabili, ad esempio, si accorse che la protagonista di un romanzo famoso si protendeva maliziosamente per un attimo verso una figura maschile che apparteneva ad un altro romanzo, ma forse l’aveva solo immaginato o anche questo poteva essere possibile? Anche l’amore, che non aveva mai vissuto ma che aveva capito essere per le donne e gli uomini il centro del mondo, l’amore che fa cantare e uccidere, anche questo poteva avere una dimensione ancora sconosciuta, al di là di tutto quello che era stato scritto? Esisteva una realtà separata e parallela alla vita reale (ma quale e dove fosse questa non gli era per niente chiaro) in cui alle storie fosse concesso di mescolarsi e ricomporsi come un mazzo di tarocchi e dove principi scientifici e filosofici ritenuti assiomi o dogmi potessero essere modificati in nome di altre leggi o di altri principi sconosciuti e da conoscere?

Solo un angolo della bottega era quasi silenzioso, con pochi libri perché pochi ne venivano stampati, li teneva in disparte perché meno venduti, ma non si sa mai, qualcuno avrebbe anche potuto chiederli, in quell’angolo i libri per ragazzi non facevano quasi rumore, quella notte, perché stavano semplicemente giocando tra di loro, assorti nell’inventare e nello scambiarsi nuovi giochi, separati dal mondo degli adulti, anche in quello dei libri, da quell’universo insieme circoscritto e infinito di sensazioni che è la fantasia dei bambini, breve ed irripetibile periodo di ogni vita, di cui solo alcuni molto fortunati, divenuti adulti, trattengono dentro di sé il ricordo o almeno una sensazione lontana.

Samuel J. Blackwell era tra quelli che non avevano dimenticato e nonostante la sua sterminata erudizione e cultura non era mai riuscito ad entrare con completezza nel mondo degli uomini adulti, per questa ragione era maggiormente a suo agio e certamente più felice in compagnia di un libro che al fianco ad un altro essere umano.

Era come se per affrontare un rapporto reale con i suoi simili avesse bisogno di vedere scritta e stampata la loro storia, volesse approfondirne la conoscenza rileggendo più volte quello che raccontavano loro stessi, ma raramente questo poteva accadere, anzi quelle poche volte che era accaduto aveva provato quasi una specie di delusione nell’incontrare di persona gli autori, la sua timidezza era come una malattia, era una situazione penosa di separazione che lo aveva sempre fatto rimanere in disparte, lontano dagli altri uomini.

Un’altra cosa bizzarra che gli era spesso accaduta era di ricomperare libri che aveva venduto ad altri tempo addietro, i libri sembravano percorrere un lungo arco nel tempo e nello spazio per tornare poi quasi sempre tra le sue mani, mani amorose con le quali li avrebbe riconosciuti anche ad occhi chiusi, dalla consistenza, dal peso, dall’odore e da quell’aura invisibile di corrispondenza che si stabiliva tra lui e loro, non gli era mai nemmeno stato chiaro se quella che riteneva la sua casuale presenza nel mondo fosse per occuparsi dei libri o all’incontrario, l’unica cosa certa era che non aveva mai potuto resistere alle loro voci e ora, finalmente sapeva come…

In quella fredda notte di dicembre del 1879 Samuel J. Blackwell fu felice come non aveva mai neanche potuto immaginare o sognato di poter essere e questo diede una svolta improvvisa alla sua vita. Nei giorni seguenti, ai rari clienti che si affacciavano esitanti alla buia bottega raccontava in modo sconnesso e confuso una storia che non era comprensibile, diceva in modo concitato che non poteva più accendere la lampada perché con la luce i suoi libri non potevano vivere, sì, diceva proprio “vivere” e a quanti se ne andavano perplessi crollando la testa gridava dietro con voce tremante che la luce era l’ unica vera nemica della conoscenza.

La notte dell’ultimo dell’anno, dal cielo scendeva piano una nevicata leggera, chiuse la porta dall’interno con la chiave, spense la lampada certo che non l’avrebbe accesa mai più, cominciò a scrivere e scivolò nell’ombra con i suoi libri, la sua vita e la sua storia.

Il mondo si dimenticò in fretta di una persona di cui non si era mai occupato. Solo molti anni dopo fu chiamato un magistrato perché la vecchia casa doveva essere abbattuta e del proprietario non si sapeva più nulla, degli uomini scardinarono l’imposta di legno marcita, forzarono la serratura arrugginita ed entrati nella piccola bottega rimasero stupiti nel constatare che era completamente pulita e vuota, vuota senza traccia alcuna di oggetti negli scaffali o sul tavolo, solamente, sopra uno sgabello era posata una vecchia giacca tarmata e ammuffita, da una tasca sporgevano una grossa chiave e un piccolo manoscritto di fogli ingialliti.

A quelle pagine il libraio aveva affidato la sua storia, ma mentre l’avvocato leggeva i fogli via via si sbriciolavano e alla fine non rimasero che poche farfalle di carta confuse con la polvere sul pavimento. Qualcuno tra i presenti rozzamente commentò che “nelle botteghe, le luci sì che devono restare sempre accese, guarda se no cosa può accadere, o ti rubano tutto o… insomma, la luce è l’arma migliore del buon bottegaio!” e così la strana storia di Samuel J. Blackwell andò a nascondersi nel buio della polvere, come tante altre che quasi nessuno ricorda più.

Non so se quello che vi ho raccontato abbia una morale, forse è soltanto una vecchia storia insolita, ma non dimenticatevela, mi raccomando e se per caso dovesse capitarvi di entrare di notte in una stanza piena di libri, non spaventatevi se sentite dei rumori sommessi, ma aspettate un momento prima di accendere la luce, aspettate un momento per favore, date ai libri il tempo di tornare al loro posto.



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