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Libano 2014: prima della grande bufera

Creato il 03 settembre 2014 da Maria Carla Canta @mcc43_

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 “La lotta contro il terrorismo è ancora agli albori. In queste difficili condizioni dobbiamo potenziare le nostre istituzioni politiche e  stringerci intorno al nostro esercito” Il Primo Ministro libanese Tammam Salam, pone la lotta al “terrorismo nero” come priorità nazionale, in stretta connessione con l’attuale vuoto presidenziale.“La minaccia terroristica sul Libano è vera, reale e continua, chi ne dubita o sottostima lede il supremo interesse nazionale”. Hezbollah propone di coordinare tutte le forze militari in un fronte unico e agire immediatamente contro le minacce alla sicurezza e alla pluralità religiosa del Libano.  “L’espansione di IS  in Siria provocherà un’ondata senza precedenti di rifugiati in Libano”.  Il Ministro dell’Interno mette l’accento sulle conseguenze sociali, invoca uno “stato di allerta globale”  e la chiusura totale del confine siro-libanese.

Le Istituzioni … scadute.

Le sedute parlamentari per l’elezione del Presidente continuano inutilmente. Mi erano parse troppo pessimistiche le parole di un giornalista libanese colte dinanzi al Parlamento a fine in aprile  “Non si metteranno d’accordo prima di settembre “. Invece il mandato  di Michel Suleiman  è scaduto il 23 maggio e la speranza di una conclusione è ancora rimandata alla prossima seduta fissata per il 23 settembre.

Anche il Parlamento è agli sgoccioli. Il prolungamento della legislatura non è stato preso in considerazione e il Governo ha fissato le elezioni per il mese di novembre. Massima incertezza. Si dubita che il Ministero preposto possa concretamente organizzarle entro il tempo fissato, c’è malumore per il mancato varo di una nuova legge elettorale, ci sono riserve sull’opportunità di una campagna elettorale sovrapposta ai ghirigori politici per la poltrona presidenziale.

Il decollo della sfida jihadista

Da tre anni  i confini del nord del Libano e della Siria sono porosi, vi s’infiltrano i traffici d’armi dei miliziani che combattono Assad. All’inizio di agosto lo sconfinamento  jihadista nel distretto di Arsal Lebanon Libano Arsalsi è configurato come un vero e proprio atto di guerra. Porta il marchio di Al Nusra, con la collaborazione di elementi dell’IS: attaccato l’esercito, assaltata la stazione di polizia, cinque giorni di scontri, la morte di 19 soldati. Poi i terroristi si ritirano con il bottino: 35 militari catturati. Il Governo è costretto a trattare, lo fa attraverso il Comitato di Studi Islamici. Come “incentivo” alla flessibilità, i terroristi rilasciano qualche soldato vivo e uno  decapitato; altri sono mostrati in video con il copione imposto: la supplica per la loro vita, la richiesta alle famiglie di costringere il Governo a liberare gli jihadisti  detenuti a Beirut nel carcere Roumieh e, con varie formulazioni, il concetto: Hezbollah deve ritirarsi dalla Siria.

Quest’ultimo slogan è, nelle intenzioni, una bomba sulla pencolante vita politica e religiosa libanese.
Da tempo il sunnita Hariri accusa per le difficoltà libanesi l’intervento di Hezbollah a fianco di Assad. Il leader sciita di Hezbollah,  Nasrallah, non da ora, risponde che l’aiuto prestato al regime siriano ha salvaguardato  il Libano da conseguenze catastrofiche. “E’ una battaglia esistenziale per noi, per il Libano, per la Siria, per la resistenza Palestinese, per la maggioranza sunnita come per le minoranze tutte. In Siria non c’è un conflitto settario, là muoiono persone di tutte le confessioni. C’è un progetto, una mentalità takfirie [empia] che attacca le differenze.” Al di là dell’ideologia politica, i fatti di Arsal  e la situazione nel nord del paese sembrano dargli ragione.

Altrettanto “caldo” il riferimento alla prigione di Roumieh che è soprannominata “bomba a orologeria” o “centro operativo del terrorismo”. Vi sono detenuti, alcuni senza processo, circa 300  miliziani di varie nazionalità ed etichette: Fatah al-Islam, Jund al-Sham, al-Qaeda, Jabhat al-Nusra, che si sono organizzati come un piccolo emirato dentro le mura. Hanno abbattuto le porte delle celle, sloggiato i carcerieri o ottenuta la loro connivenza, e dispongono dei mezzi per comunicare all’esterno.
Non si deve, allora, sorvolare sulla promessa di Abu Bakr Al Baghdadi, il Califfo dell’IS, di liberare i “prigionieri islamici” in tutto il mondo e sull’incitamento a sollevarsi e uccidere i carcerieri. E’ indubbio che, al momento ritenuto opportuno dal regista occulto, avverrà una sollevazione della prigione e sarà nel cuore del paese, nella Beirut che già fatica tra attentati, incertezze sul futuro, folle di profughi a mantenere la necessaria parvenza di normalità.

 Ma Beirut non è tutto il Libano 

Dalla zona sunnita di Arsal, teatro dell’episodio di agosto, il conflitto potrebbe estendersi al nord della valle della Beqaa, infiltrandosi così in un territorio a maggioranza Sciita,  coinvolgendo la città di  Baalbeck il cui sito archeologico – un tesoro ineguagliabile nel patrimonio dell’umanità- si troverebbe esposto alla furia distruttrice dei miliziani (foto).

Nella provincia settentrionale di Tripoli non vi è più la parvenza di normalità che ancora sussiste a Beirut. La gente ha più paura della povertà che dell’IS titola  il quotidiano NOW. Come si è visto nel post precedente, l’IS sfrutta i vuoti, le carenze di cui soffre la popolazione, per insediarsi.
La  popolazione della zona di Tripoli è a maggioranza sunnita,  a lungo abbandonata politicamente dal Future Moviment, quando il leader Saad Hariri, nel timore di subire un attentato, era “emigrato” in Arabia Saudita, paese di cui ha la seconda nazionalità. Scoppiano spesso rivolte contro l’esercito o cruente tensioni settarie. C’è sfinimento per i tre anni di conflitto siriano che ha riempito la città di profughi.  La minoranza sciita si sente emarginata, accusa l’esercito di proteggere solamente i sunniti. Vi sono cellule di Al Nusra, o loro simpatizzanti,  e sono presenti gruppi di rifugiati Alawiti, la confessione religiosa degli Assad. L’esausta maggioranza della popolazione, stanca di guerre spacciate per “religiose”, non dà più il benvenuto a nessun rappresentante delle Istituzioni.

Inquieto il Libano del Sud; nel  distretto di Nabatiyeh, la polizia ha arrestato un gruppo di rifugiati siriani per una manifestazione inneggiante allo Stato Islamico, con slogan incitanti  alla violenza contro le diverse confessioni religiose.
Come dimenticare, poi, i campi dei Profughi  Palestinesi. Si può contare che i giovani, cui lo stato libanese non lascia alcuna prospettiva per modellarsi un futuro, restino tutti quanti impassibili quando il Califfo li chiama a costruire lo Stato Islamico?

Il  Libano è il ventre molle per la propaganda dell’IS, che ha anche un motivo poco evidenziato dal mainstream per mettere le mani sul Libano. Un motivo che si racchiude in una parola: petrolio. Non perché il Libano disponga di questa risorsa,  ma perché i trader del petrolio, rapinato dai pozzi dei territori già conquistati  e illegalmente  commerciato, agiscono già dal Libano, oltre che dall’Iraq.

Quello che manca nella lotta all’IS

Fra tutte le dichiarazioni di allarme, le richieste e le promesse di aiuti militari, sembra mancare in Libano come nelle capitali mondiali l’indispensabile precondizione: capire che cosa è veramente l’IS . Autorevolmente lo afferma Rami G. Khouri , Direttore dell’ Issam Fares Institute, American University of Beirut

La nostra sfida collettiva è identificare correttamente gli elementi che hanno dato vita alla mentalità che porta dei giovani ad arruolarsi e indulgere a ogni genere di barbarie che lo Stato islamico ora dissemina nei suoi video e nei social media.

Non ho dubbi  che la ragione più importante, diffusa, continua e ancora attiva  per la nascita e la diffusione della mentalità dell’IS è la maledizione della politica di sicurezza degli stati islamici moderni che dal 1970 hanno trattato i cittadini come bambini da rendere obbedienti e passivi.
Altri fattori hanno giocato un ruolo in questa moderna tragedia statuale in tutto il mondo arabo, fra questi: la minaccia del sionismo e del violento colonialismo israeliano (vedi la continuità con Gaza) e l’ingerenza continua , quando non veri e propri attacchi militari,  da parte di potenze straniere, tra cui gli Stati Uniti, alcuni stati europei, la Russia e l’Iran.

Il fenomeno Stato Islamico è la presente, e forse non l’ultima,  tappa in un percorso di umiliazione araba di massa e di disumanizzazione, gestita principalmente da regimi autocratici arabi che ruotano attorno a singole famiglie o clan, con immenso, continuo sostegno da mecenati stranieri. Le aggressioni militari ai paesi arabi (Iraq, Libia) hanno esacerbato questa tendenza, così come  lo ha fatto l’aggressione israeliana contro i Palestinesi e gli altri Arabi.

Lo stesso effetto sortirebbe un nuovo intervento militare nelle zone d’azione jihadiste. Un intervento che manifestamente la tattica di comunicazione deIl’ IS, con la sua sfida diretta personalmente a Obama, vuole provocare. Ben comprendendo che la morte di innocenti, estranei alla sua agenda criminale, le procurerebbe  nuova esaltata manovalanza.

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