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Libia: di rapimenti e di naufragi

Creato il 17 ottobre 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi
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di Marta Ciranda

libia-caos
Tripoli, 10 ottobre. È l’alba. Ali Zeidan, Primo Ministro in carica, si trova in una stanza del lussoso Corinthia Hotel, sua residenza nella capitale, quando il suo riposo viene bruscamente interrotto da uomini armati, che lo prelevano e per qualche ora ne fanno perdere le tracce, facendo temere il peggio. Rapimento? No, si è trattato di arresto, diranno più tardi gli artefici. Un arresto, tuttavia, mai autorizzato da nessuno degli organi competenti, ribadirà più tardi la Procura. Qualunque sia stata la natura del gesto, e chiunque ne sia stato l’ideatore e l’esecutore – al-Qaeda? Un gruppo di ex ribelli? Addirittura un gruppo di parlamentari, come affermato dallo stesso Premier? – una cosa è certa: la Libia è, purtroppo, inesorabilmente sprofondata nel caos e nell’insicurezza oramai da troppi mesi, e quanto accaduto non ne è che l’ennesima riprova.

I fatti, le ipotesi – Le circostanze del rapimento sono ancora tutte da chiarire, e forse non lo saranno mai. Stando ai testimoni sono state diverse decine le persone che hanno fatto irruzione nell’hotel: quasi un’operazione di stampo militare, poi rivendicata dal gruppo denominato “Camera dei rivoluzionari di Libia”, una milizia di ex ribelli riassorbiti, con compiti di polizia, dal Ministero dell’Interno nel suo tentativo di tenere a bada i tanti gruppi armati rimasti a spadroneggiare sul territorio dopo la fine della guerra civile: tentativo, evidentemente, non del tutto riuscito. Dal canto suo, Zeidan ha attribuito parte della responsabilità ad alcuni parlamentari, promettendo di rivelarne l’identità innanzi al Congresso. Immediatamente dopo il rapimento, invece, la pista più plausibile era parsa quella qaedista: era sembrato possibile, infatti, rintracciare un collegamento tra quanto accaduto e l’arresto, solo cinque giorni prima, di Abu Anas Al-Libi, presunto responsabile degli attentati del 1998 contro le ambasciate statunitensi in Tanzania e in Kenya, arresto di cui alcuni gruppi estremisti locali avevano accusato il Premier, reo di non essere riuscito ad impedire l’azione USA – di fatto una violazione della sovranità territoriale libica – o di averla addirittura segretamente autorizzata.

Questioni di (in)sicurezza – Il rapimento di Zeidan è solo l’ultimo di una serie di avvenimenti che a ritmo quasi cadenzato ricordano al mondo intero quanto sia lungo e pieno di ostacoli il processo di normalizzazione della Libia. Dall’attentato costato la vita all’Ambasciatore USA a Tripoli, Chris Stevens, l’11 settembre 2012, all’esplosione che ha interessato la sede dell’Ambasciata di Francia nell’aprile 2013; dai tafferugli tra milizie quasi all’ordine del giorno, alle tensioni di matrice religiosa, agli episodi, sempre più frequenti, di microcriminalità comune (car hijaking, rapine, furti), tutto sembra voler scoraggiare ogni tipo di ripresa, sia dell’attività economica che del dialogo politico. Del resto, quanto accaduto ai danni del Premier è al tempo stesso sintomo e potenziale causa del perpetrarsi di una situazione in cui, come ribadito appena dopo il rapimento anche dal capo di UNSMIL (United Nations Support Mission in Libya), Tarek Mitri, estrema è la fragilità del potere centrale, incapace non solo, per cominciare, di provvedere al progressivo ristabilimento di un quadro di sicurezza adeguato, ma anche di tenere a bada le velleità autonomiste di Cirenaica e Fezzan (quest’ultima dichiaratasi pienamente autonoma lo scorso 27 settembre) e di controllare efficacemente i confini: in ultima analisi, di affermare la propria autorità.

A sud di Lampedusa – La fragilità delle istituzioni statali libiche ha certamente un peso anche in quanto di tragico si sta verificando in questi giorni nella stretta fascia di mare tra Lampedusa e il Paese nordafricano: non è infatti certo un mistero che, dopo mesi di viaggio attraverso il deserto, proprio da Tripoli, Misurata, Bengasi salpino i barconi carichi di migranti – e di speranze – diretti verso le coste siciliane. Esemplificativo è, a questo proposito, quanto accaduto pochi giorni fa: i sopravvissuti all’ennesimo naufragio hanno raccontato di essere stati raggiunti da colpi di arma da fuoco provenienti da una motovedetta battente bandiera libica; episodio immediatamente ridimensionato da Zeidan il quale, pur ribadendo il non coinvolgimento delle forze armate, ha annunciato l’apertura di un’inchiesta. Insomma: chi controlla, davvero, le coste libiche? Si tratta di personale sotto effettivo controllo del Governo, di miliziani insofferenti ad ogni gerarchia, o di chi altro? E con chi potrà dialogare il nostro Paese, nel difficilissimo tentativo di trovare una soluzione all’immane tragedia umana che i movimenti migratori, tristemente spesso, portano con sé? Del resto, nel surreale clima di indifferenza generale alle vicende migratorie da parte dell’opinione pubblica locale, presa da altre preoccupazioni quando non animata da veri e propri sentimenti di razzismo verso i migranti non arabi, pare difficile che il Governo Zeidan voglia mettere in campo tutte le risorse a propria disposizione per dare un contributo incisivo alla risoluzione del problema.

Un Paese alla deriva? - Insomma, il rapimento/arresto di Zeidan è solo la punta dell’iceberg: un episodio che, seppur gravissimo, è solo una delle manifestazioni più evidenti di quanto delicata e complessa sia la situazione nel Paese africano da sempre a noi più vicino. Quello che ci si può augurare è che, scampato il pericolo di un coup, la Libia non naufraghi comunque nel mare delle sue molte, troppe fragilità.

* Marta Ciranda è Dottoressa in Cooperazione internazionale e tutela dei diritti umani nel Mediterraneo e in Eurasia (Università di Bologna)

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Photo credit: Abdullah Doma/AFP

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