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"Mein Kampf" di Adolf Hitler e il tempo
Ormai da un annetto abbiamo messo su con gli amici un circolo letterario. Ci ritroviamo ogni mese e discutiamo di un tema, di un genere o di un libro in particolare, assegnato la volta precedente. Quando nell'ultimo incontro è stato scelto il tema “Il tempo”, a un primo impatto mi è sembrato che ci fosse un'infinità di libri da leggere su quell'argomento. Ma poi, pensandoci e ripensandoci, per giorni non sono riuscito a trovare un titolo che secondo me fosse adatto per l'occasione. Escludendo per ovvi motivi (primo fra tutti la lunghezza) i sette volumi di Proust di Alla ricerca del tempo perduto, sono passato a considerare una serie di altri titoli con all'interno la parola “tempo”. Ma ancora niente.
Quindi una sera, prima di andare a letto, ho dato un'occhiata al comodino, dove c'erano impilati tre libri. Uno di questi, il più voluminoso, stava lì da più di un anno. Me lo aveva prestato un amico, perché una volta ci eravamo addentrati nel discorso e avevamo scambiato qualche battuta su uno dei periodi più oscuri dell'intera storia dell'umanità: quello del Terzo Reich e di Adolf Hitler. Il libro in questione era il famigerato Mein Kampf, scritto dal dittatore nazista nel 1924, durante un anno di prigionia scontato per alto tradimento dopo un fallito colpo di stato. Quello era il libro che dovevo leggere, era arrivato il momento giusto. Si trattava di un libro sul tempo, a suo modo. Un tempo da dimenticare, ma da conoscere nella stessa misura. Un tempo da non ripetere, ma di cui fare tesoro per non ricadere negli stessi tragici errori. Un tempo di barbarie e nefandezze, del quale l'unico responsabile non può essere stato che l'uomo.
Sia chiaro, non sono riuscito a leggere ogni singola riga, davvero non ce l'ho fatta. Oltre 500 pagine (si trattava di una coraggiosissima pubblicazione di una casa editrice di sinistra) da leggere in poco meno di un mese era un'impresa fuori dalla mia portata. E poi c'era da fare i conti con l'abbondanza di passi deliranti, fra aberranti teorie socio-politiche e antisemitismo. Sono andato a tratti e ho letto ciò che mi interessava, dico la verità. Ho letto di Hitler unico figlio maschio sopravvissuto tra sei fratelli, ho letto di una giovinezza da bohemienne passata a tentare di fare l'artista e di una carriera sfortunatamente mai decollata, ho letto di una vita fatta di mistificazioni (Hitler sosteneva di aver svolto lavori da operaio e manovale da ragazzo, ma era pura invenzione, come lo era la sua presunta conoscenza dell'intero complesso di teorie marxiste), ho letto di un'estrema convinzione di governare la Germania (purtroppo poi divenuta realtà), ho letto di illustri studi presi a prestito per giustificare le basi dell'odio razziale (per esempio la “Selezione naturale” di Darwin per rafforzare le tesi sulla razza ariana e sulla sua purezza).
La sensazione, una volta chiuso il libro per l'ultima volta, è stata quella di aver letto qualcosa di proibito. Il Mein Kampf d'altronde non è solo un libro scomodo (al pari di molti testi della Fallaci, di Gomorra di Saviano, oppure del caso internazionale legato a I versi satanici di Salman Rushdie). La sua riedizione, infatti, è stata vietata per molti anni in Italia e in altri paesi del mondo. In alcuni Stati il libro è consultabile solo a scopo di ricerca, mentre in altri è ritenuto addirittura un reato possederlo o venderlo. Nel nostro paese, dove si può leggerlo, possiamo quindi considerarlo come un importante documento, testimone di un'epoca nella quale si è toccato l'apice della disumanità. Eccettuato qualche idiota che ancora oggi lo venera come il manuale del perfetto nazi-antisemita, tutti gli altri possono leggerlo come un testo nel quale si dipana, attraverso continue farneticazioni, la formazione di una personalità in grado di plagiare le masse e dunque l'origine di un mostro. Da leggere per riscoprire le radici di un'immane follia.
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