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Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato di John R. R. Tolkien

Creato il 06 dicembre 2012 da Oggialcinemanet @oggialcinema

Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato di John R. R. Tolkien

Scrivere è un viaggio. Un cammino chimerico e reale sparso di imprevisti, sorprese, momenti nostalgici e curiosità irreprimibili, voglia di tornare indietro e incapacità di fermarsi. La parola, con le sue rotonde asperità e i suoi fremiti evocativi, è una tappa di un discorso che viaggia tra pensieri e sensazioni spesso inaspettati. E’ l’idea che spinge e chiama. E’ il laccio che lega e stringe. Bilbo Baggins (il protagonista) e J.R.R. Tolkien (lo scrittore), percorrono, passo dopo passo, l’uno l’ombra allungata dell’altro, uno stravolgente viaggio, seppur in qualche modo da sempre atteso e di fronte al quale si mostrano pronti e preparati. Viaggio che per ambedue inizia con una celebre frase dai toni fiabeschi e fascinosi: «In un buco nella terra viveva un hobbit».  Toni che non abbandoneranno, neanche nei momenti più cruenti, il suono intrinseco della narrazione. La musicalità fiabesca e la sua delicata incisività rappresentano, come una nota avvolgente, i caratteri preminenti di quest’opera. Pare che Tolkien scrisse questa breve frase quasi inconsapevolmente, senza avere in sostanza né un’idea precisa di cosa esattamente volesse raccontare né un iniziale organizzazione logica di pensieri da sviluppare e portare avanti. Un fiocco di neve che cade e piano si posa. Da idee così vaghe e con un incipit già definito, Tolkien passò direttamente alla mirabile descrizione degli hobbit e, creandoli dal nulla, inventandoli, affiancò queste nuove affascinanti creature ad antichissime e leggendarie figure già presenti nella mitologia norrena, quali nani, elfi, troll, orchi, draghi. In una lettera Tolkien stesso spiega che immagina quella che si rivelerà in definitiva la sua più importante invenzione letteraria, gli hobbit appunto, come esseri piccoli e ben vestiti, con un po’ di pancia e gambe corte, faccia tonda e gioviale, orecchie leggermente elfiche, capelli corti e coi piedi pelosi.  E queste, difatti, sono le fattezze di Bilbo, il signor Baggins, lo hobbit che dalla sua vita sedentaria e comoda, dal suo buco-hobbit caldo e confortevole, dalle sue giornate trascorse bevendo del tè e fumando la pipa, passerà in breve, persuaso con benevole astuzia da 13 nani e uno stregone, a intraprendere una rischiosissima avventura, sfidando troll cattivissimi, orchi spietati, lupi mannari e, infine, un drago enorme color oro rosso, Smaug. Palesemente goffo, pavido e poco avvezzo a sopportar grandi fatiche, tra cui freddo, fame e camminate lunghissime, lo hobbit scoprirà in sé inimmaginabili risorse. Guardandosi dentro troverà nuovi e straordinari aspetti della sua persona e conoscerà insieme alla paura e al pericolo, la saggezza e il coraggio. Un altro se stesso, uguale e diverso, invecchiato ma più giovane.

Pubblicato nel 1937, dopo una gestazione lunga e ricca di revisione, Lo hobbit ebbe, da subito, un eclatante e ininterrotto successo. Seppur l’impianto narrativo dipana l’intera trama in modo piuttosto lineare e semplice e i personaggi hanno uno sviluppo psicologico a volte troppo repentino e non sempre coerente, Lo hobbit, come ogni classico, è un libro che mantiene intatta la sua capacità di coinvolgere e appassionare. I viaggiatori così non sono esclusivamente due. C’è un altro “viandante” che, rapito dalla efficacia della narrazione, viene coinvolto in questo viaggio e si unisce, amalgamandosi, a questa originale compagnia; è il lettore, che dal quel buco nel terreno in cui vive un hobbit riesce a intrufolarsi pienamente, mani e piedi, nell’intimità della storia, nei suoi aspetti più vivi e pulsanti, sentendone così il freddo e il caldo, gli odori e i suoni, i colori e le forme. I sussulti sommessi e i tonfi fragorosi. Lo hobbit è anche un delicato gioco di sensi.

In questo viaggio l’itinerario tracciato, o ancor meglio un solco tra altri solchi, è la natura umana, con le sue debolezze e le sue virtù. Troviamo in modo trasversale ed alterno alle circostante la cifra di quel che siamo. Siamo, o possiamo essere, meschini e avidi, eroici e generosi. Tentati al contempo dal tradimento e dalla rettitudine. Diffidenti verso l’esterno, protettivi con il nostro nucleo-mondo.  Ma è anche una natura umana che ha bisogno di vedere un mondo meno reale e più semplice in cui i concetti di Male e di Bene si stagliano nitidamente senza promiscuità o incertezza. Altri solchi: Scritto in un’Europa democraticamente fragile, pullulante di regimi feroci e illiberali, ferita dai colpi mortali della grande guerra e in cui il vento di un’imminente tragedia soffiava sempre più forte, trovare nella storia di Bilbo, oggi, analogie coeve alle vicende di quel periodo può rivelarsi facile ma con ambiti di plausibilità ristretti, rischiando di andare ben oltre la volontà dello scrittore. Di certo nel libro sono espressi in modo netto e, quindi, un po’ semplicistico i contorni del Bene e del Male, e all’interno di questo dualismo si dibattono e scorrono gli eventi più significativi raccontati. Ma un ammonimento finale, inequivocabile e definito non si può non cogliere, e Tolkien lo lascia pronunciare al morente Thorin Scudodiquercia che rivolgendosi a Bilbo Baggins dice: «In te c’è più di quanto tu non sappia, figlio dell’Occidente cortese. Coraggio e saggezza, in giusta misura mischiati. Se un maggior numero di noi stimasse cibo, allegria e canzoni al di sopra dei tesori d’oro, questo sarebbe un mondo più lieto».

di Christian Dolci


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