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Lo sciopero significa non poter sfamare i propri figli

Creato il 30 gennaio 2014 da Cassintegrati @cassintegrati

Sciopero e corteo partecipatissimi per Almaviva di Palermo, ieri. Eppure ognuno dei dipendenti ha perso una giornata di lavoro dalla busta paga già ridotta alla fame nell’accordo del 30 maggio scorso. Ormai scioperare è diventato un lusso.  

Lo sciopero significa non poter sfamare i propri figli

Sembrava tutto risolto in Almaviva dopo la firma dell’accordo dello scorso 30 maggio, che ha introdotto i contratti di solidarietà in tutte le sedi al fine di evitare i 2.000 esuberi annunciati. Invece l’attenzione, ora, è per la sede palermitana dell’azienda, dove lavorano ben 4.500 persone sui quasi 9.000 impiegati. A Palermo, infatti, c’è stato ieri uno sciopero seguito da un grande corteo, per protestare contro il mancato accordo tra azienda ed enti locali sulla sede unica. Soluzione che permetterebbe ad Almaviva di ridurre i costi, e tirare una boccata d’ossigeno dalle ingenti perdite.

Uno sciopero sembra prassi all’ordine del giorno. Non è cosi per chi lavora al call center, a loro scioperare costa moltissimo: “Significa rinunciare a una parte di quei salari già al limite della povertà”, spiega Salvo Montevago, segretario della Cisal Comunicazione, che segue da vicino le vicende della sede palermitana e che pur non condividendo la forma di protesta utilizzata ha lasciato piena libertà di coscienza ai lavoratori.

La questione della sede sembrerebbe semplice: a Palermo serve una sede unica per accorpare le due sedi attuali e l’immobile è stato individuato nella ex sede Telecom di via Ugo la Malfa. Questo trasferimento garantirebbe, dice l’azienda: “Un beneficio economico di circa 2 milioni di euro l’anno”. Servono però 7-8 milioni di euro per ristrutturare l’edificio, e l’ago della bilancia per Almaviva lascia intendere che dovrebbe essere la Regione ad accollarsi la spesa.

Intanto l’Agenzia per i beni confiscati e sequestrati (Anbsc), che gestisce l’immobile, ha fatto sapere che i rapporti con l’azienda si sono interrotti da oltre 8 mesi, in uno scarica barile fra Regione e azienda di cui non si intravede l’uscita.

La storia della protesta dei dipendenti Almaviva è fra le più interessanti del panorama italiano, e noi l’abbiamo raccontata passo dopo passo: il flashmob in contemporanea in tre città contro la delocalizzazione, la lettera al presidente della Repubblica, il blitz sul red carpet del Festival del Cinema di Roma. La volta in cui fermarono Elsa Fornero e la convinsero ad attivare un’indagine dell’Ispettorato del lavoro, sulla richiesta di cassa integrazione ritenuta “fasulla” dai dipendenti romani. Tutto questo, per la maggior parte, realizzato senza l’appoggio dei sindacati confederali.

“Ripenso a questi mesi e analizzo ogni singolo giorno, tutto mi ritorna alla mente, ogni passo, ogni azione. La rabbia quando ci è stata consegna la lettera di sospensione. Le prime settimane, quando alzarsi la mattina era difficile. La certezza di aver subito un’ingiustizia”, ricorda Marina Cimenti dalla sede romana.

Dopo i ricordi, i fatti: la Cisal ha elaborato questo schema dove indica quanto hanno perso i lavoratori in busta paga dopo l’accordo sindacale del 30 maggio. “Parliamo per la maggior parte di lavoratori part-time di terzo livello che guadagnano, bene che vada, 650 euro al mese. Decurtare 50 euro da una busta paga cosi misera significa non poter sfamare i propri figli“, spiega Montevago.

Si è addirittura introdotto il concetto di smonetizzazione della domenica: “Si mette nero su bianco – continua il sindacalista – che chi lavorerà la domenica non avrà alcuna maggiorazione (come prima era prevista) ma cumulerà le maggiorazioni fino a raggiungere una giornata intera da utilizzare come riposo compensativo, ovvero come giorno libero”.

Contratti di solidarietà, cassa integrazione, incentivi, smonetizzazione della domenica. Dire sempre sì per salvare il posto di lavoro, anche quando diventa impossibile. E, alla fine, partecipare allo sciopero pagando di tasca propria. “Ho sempre dato tanta dignità al mio impiego e l’ho pretesa da chi lo denigrava”, dice Marina, che non accetta che il call center debba per forza essere sinonimo di sfruttamento. Ma la dignità costa cara. Come lo sciopero di Palermo. A cui sono andati in tantissimi.

di Michele Azzu

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