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Lo scrittore in pensione

Da Marcofre

Non conosco lo scrittore Philip Roth, nel senso che non ho mai letto nulla di lui. Però il suo annuncio di aver abbandonato la scrittura suscita delle interessanti riflessioni.

La prima è quella che di solito viene partorita da una mente maligna: “Dice così ma tra un po’ di tempo (e un assegno milionario), salterà fuori un nuovo romanzo”.
Benché non sia impossibile che accada, ridurre la narrativa tutta a una questione di soldi e basta, mostra che non si possiede una chiara idea di che cosa sia la scrittura. Certo: è denaro, compromessi, invidie e gelosie. Se esiste un ambito dove accadono questo tipo di cose e anche peggiori, è proprio la narrativa.

Ridurla solo a questo per me significa che l’omologazione ha svolto un buon lavoro.

La seconda riflessione è: si può davvero smettere di scrivere? La mia risposta è: per un po’, sì.
Però faccio fatica a immaginare un autore che espelle dalla propria giornata la scrittura. Certo, si può leggere tantissimo. Ma il prurito alle mani rimane. E anche se non riesce a pubblicare (perché non è Philip Roth, ma un P.P. (Pinco Pallino) qualunque), costui ogni giorno, o quando ne avrà la possibilità, scriverà. Che poi la sua “produzione” finisca al macero diventa, col passare del tempo, un dolore sopportabile, viene sublimato insomma. Perché è un impegno che l’individuo ha preso con la parola, e a quel punto non ha più alcuna importanza la pubblicazione. Sotto certi aspetti, è una questione d’onore: si fa e basta.

Nella dichiarazione di Roth, si parla anche della difficoltà di scrivere: per lui è sempre stato così. Difficile. Forse per questo motivo in un’intervista precedente Roth consiglia a un scrittore esordiente di smettere di scrivere.

Più passa il tempo e più mi convinco che uno scrittore è nelle pagine che scrive; un po’ meno nelle interviste o dichiarazioni che siano. Tutto quello che dice è poco interessante, di solito. Non perché affermi delle sciocchezze (benché accada a volte, e non mi riferisco a Roth). L’impegno che la parola scritta richiede è maggiore del parlato. Chiunque fa sul serio, lo sa e non ha bisogno che qualcuno glielo ricordi. Le affermazioni di un autore sono negli aggettivi, nei dialoghi. Nella descrizione di un ambiente. Nelle storie insomma.

Un autore come Cormac McCarthy o Philip Roth se “camminano” nel mondo, e quindi lasciano il loro, si trovano a dover effettuare una sorta di traduzione per spiegare e illustrare. Fa parte del gioco, certo. Non è più il romanzo che si incarica di questo compito, e che costringe il lettore a distogliere lo sguardo dalle sciocchezze per puntarlo verso l’alto. Bensì c’è solo lui, lo scrittore, e l’oralità.

In parte questo spiega perché un autore “dal vivo” sia di solito una delusione per il lettore. È comprensibile: lo scrittore è fuori dal suo elemento “naturale”, è come se perdesse il potere e diventasse come uno di noi. Lo è, finché non rientra in contatto con la parola. Allora tornerà a essere uno scrittore.

Forse Philip Roth è arrivato al punto di non sostenere più questa dicotomia, e preferisce restare al di fuori della portata della parola, distante dalla sua sublime dittatura. Dubito che ci riesca sul serio, di fatto starà distante solo dalla pubblicazione.
Continuerà a scrivere, e dopo la sua morte l’apparizione di romanzi o racconti inediti non sarà affatto una sorpresa. Non ci si libera mai della parola. Statene alla larga se volete essere un po’ felici.

 


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