"La visione si frantuma, ed è da un angolo periferico, potenziale teatro di eventi altrettanto, (...) se non più angoscianti, che si ricompone il caleidoscopio. (...) Le cristalline lenti attraverso cui (il lettore) è destinato a vedere il mondo della poesia callimachea lo sposteranno sempre, inevitabilmente, verso una prospettiva periferica, lucida, ma insieme deformante, straniante". Con queste parole G. B. D'Alessio descrive la poetica di Callimaco (305-204 a. C.) nella sua introduzione all'edizione delle opere del poeta greco da lui curata.
"Carver è uno scrittore di straordinaria onestà e compassione, il suo sguardo è così cristallino da spezzare il cuore". Queste invece sono parole tratte da una recensione del Washington Post e riportate sulla quarta di copertina dell'edizione italiana di "Cattedrale", la più famosa raccolta di racconti di Raymond Carver (1938-1988).
Quando lessi per la prima volta questi due giudizi fui ovviamente molto colpito dal fatto che due scrittori appartenenti a culture ed ambienti geografici così diversi e, soprattutto, separati da ventidue secoli di storia, sembrassero avere tanto in comune. Nonostante le macroscopiche differenze, infatti, pare che entrambi condividano una sorta di "sguardo lucido", anzi, "cristallino" (è questo l'aggettivo presente in entrambi gli interventi), sulla realtà.
Questi due autori mi sono venuti subito in mente quando ho incontrato le fotografie di Fulvio Bortolozzo. Mi riferisco soprattutto al ciclo Scene di passaggio (Soap Opera), all'interno del quale ho scelto la fotografia che campeggia sulla copertina del mio libretto di poesie.
Questa serie di fotografie ritrae paesaggi e ambienti che a uno sguardo superficiale potrebbero risultare indifferenti, se non addirittura sgradevoli, in quanto non corrispondenti alle categorie tradizionali del "bello". Troviamo infatti parcheggi, cantieri, pochissime presenze umane e per lo più sfuocate, scorci urbani di periferia, edifici fatiscenti, interni di camere d'albergo, porti, spiagge abbandonate, ecc... insomma, la fanno da padrone quelli che Marc Augé, per primo, definì "non-luoghi".
Lo sguardo di Bortolozzo è cristallino e lucido come quello dei due autori sopra citati perché non si lascia distrarre dai condizionamenti del senso comune, che impongono determinati principi estetici che vanno a costruire un gusto omologato. D'altra parte, la sua non è neppure la battaglia pregiudiziale di chi condanna tutto ciò che è artificiale, moderno, "falso", in nome di una bellezza naturale e autentica perduta chissà quando e chissà dove. Il suo sguardo è cristallino e lucido perché si insinua in quelle fessure del reale che altri nemmeno noterebbero, e lì trova occasioni di interesse, di senso, quindi di bellezza. Ritrae soggetti a noi familiari, ma lo fa, come Callimaco, da una prospettiva diversa, inedita, spesso addirittura angosciante. E questa sua attenzione agli aspetti della realtà che lo sguardo dell'uomo comune trascura cos'è, se non una forma di pietas, molto simile alla compassione inquieta che proviamo per tanti personaggi di Carver? Restituire senso a tutto, questa sembra essere la sfida di Bortolozzo. E sicuramente la sua sfida parte dalla convinzione che il senso sia già nelle cose, che non ci sia bisogno di grossolani strumenti tecnici per estrapolarlo. Si sa, però, che l'arte più raffinata è proprio quella che nasconde, fino quasi a farli scomparire, i propri mezzi. Ed infatti il fotografo stesso afferma: "Le fotografie (...) non sono preparate o pianificate, ma "accadono" nel corso dei miei spostamenti". Come ogni artista che si rispetti, anche Bortolozzo riesce a trasformare, un'esperienza autobiografica e personale in qualcosa di universale, tessendo un dialogo emozionale con lo spettatore: se quest'ultimo infatti rimarrebbe indifferente di fronte a quegli scorci e a quei paesaggi, quando essi sono ritratti nelle sue fotografie prova invece un insieme di emozioni diverse e talvolta contrastanti: ripulsa, inquietudine, ma anche commozione, e soprattutto nostalgia. Nostalgia per un'esperienza che non gli appartiene: forse qui sta la chiave della grandezza di queste fotografie, che confermano una mia personale idea della letteratura, e dell'arte in genere: più "lo schermo" dell'espressione è freddo, raffinato (da intendersi come participio passato, cioè il risultato di un raffinamento continuo), "apollineo", più il fuoco che dietro quello schermo si cela è drammatico, commovente, "dionisiaco".
È in questo contrasto che prende vita la grande arte, e le fotografie di un artista esperto e sensibile come Fulvio Bortolozzo ne sono un bellissimo esempio.