Come accennavo nel post precedente, la nemesi dei nostri vichinghi e delle nostre valchirie scatta intorno ai 40, quando la natura si vendica (dentro) sotto forma di trigliceridi, glicemia e colesterolo, manifestandosi (fuori) sotto forma di facce, pance, cosce e culi proporzionati.
La dieta nordica non prevede infatti nessuna pietà.
Non per l’ingurgitatore.
Per il suo fegato e il suo pancreas.
Una ragazza italiana molto bella che ho conosciuto, mi raccontava che tra il 16 e i 17 anni visse e studiò a Ystad (la città del commissario Wallander, dove ho trascorso un paio di giorni anch’io quest’anno), Scania, esattamente nel punto più basso della Svezia.
Essendo giovane, sana e adattabile, mangiava tutto quello che mangiava la famiglia ospitante, e cioè: carne e pesce fritti, patate fritte o bollite, dolci ricchi di panna e latte. Alla fine dell’anno si sentì male e dovette essere ricoverata: aveva la pancreatite.
Come mai? Semplice, il suo organismo, abituato alla dieta mediterranea, non riusciva più a metabolizzare tutti quei grassi animali e quei fritti e si era intossicato.
Inoltre il suo bel viso si era riempito di brufoli sottopelle, tuttora visibili a venticinque anni: non sono più spariti. Prima di Ystad, la sua pelle era liscia.
Forte di queste premesse, e reduce da una vacanza in Trentino dove, per motivi che non sto a spiegare, ero stata costretta a mangiare molti più latticini di quanti la mia colite ne potesse sopportare, per le due settimane che ho trascorso tra Danimarca, Svezia e Norvegia ho cercato di contrastare quelle allarmanti tendenze.
Spesso ho pranzato con un’insalata comprata al supermercato. Facile? Mica tanto.
A parte i prezzi assurdi, una vaschetta di insalata scandinava già lavata non comprende solo verdura(insalata-cetriolo-pomodoro-a-volte-cipolla, che dopo un po’ ti vengono a noia, ma il convento non passa altro) ma anche una bustina di salsa con panna e spezie – la bustina di olio e aceto, peraltro insapori, l’ho ritrovata solo ad Amburgo – e, sotto la verdura, un raccapricciante strato di pasta in bianco stracotta. Talvolta c’è anche del formaggio a cubetti.
La prima volta mi son fatta fregare dalla pasta nascosta.
Dalla seconda in poi, ogni volta rivoltavo le insalate presenti nell’espositore finché non trovavo quella col couscous, di solito già condito con una salsa rossastra dal sapore a metà tra il curry e la harissa.
Ma la cosa che mi faceva veramente incazzare era l’assenza di pesce fresco. Possibile che peschino pesce azzurro, merluzzo, aringa, gamberi, gamberetti, salmoni etc. etc. e nei loro ristoranti (fatta eccezione, presumo, per quelli di fascia alta come il mitico Noma di Copenhagen, non alla portata delle mie tasche) il pescato si trovi solo sotto forma di bastoncini fritti?
Evidentemente è possibile.
Il nostro amico di Stavanger, purtroppo alle sette di sera, ci ha spiegato che se fossimo andate al porto alle cinque del pomeriggio, avremmo potuto acquistare fish&chips dai pescatori, e anche buono.
Vista l’ora, abbiamo ripiegato, su consiglio suo, su un ristorantino carino in riva al laghetto della città, dove per la modica cifra di 40 euro abbiamo ottenuto io una zuppa di salmone (sei pezzi di salmone che navigavano in un brodo di cipollotto e panna) e lei i soliti bastoncini di pesce, contornati di insalata mista. Pane e acqua di rubinetto inclusi.
Non scherzo: in un Paese dove il biglietto del bus costa l’equivalente di 2,50 euro, andare a cena fuori ha questo prezzo.
L’alternativa numero uno è farsi i panini con quello che si trova al buffet della colazione, cosa che noi abbiamo fatto più d’una volta per risolvere il pranzo, e talvolta anche la cena.
Certo, fa un po’ Italiano Ladro e Disonesto, ma alla fin fine fare colazione a buffet significa sedersi e poter consumare all-you-can-eat. Non sarà mica colpa mia se certi altri a colazione si pappano due uova fritte, aringa marinata, pomodori, due caffè e tre succhi di frutta e io con mezzo caffè * e una fetta di pane e marmellata sono già sazia?
L’alternativa numero due, molto consigliata per la cena, sono i ristoranti etnici. Come in tutti i Paesi protestanti, che tradizionalmente vedono la buona cucina come lo zampino del diavolo – in questo non è cambiato nulla dal Pranzo di Babette (pubblicata nel 1958, la storia è ambientata intorno al 1880) della Blixen – i popoli scandinavi adorano salse, spezie e modi alternativi di cucinare quello che loro non riescono assolutamente ad elaborare creativamente.
Via libera quindi a locali thailandesi, malaysiani, cinesi, giapponesi, italiani, coreani, spagnoli e chi più ne ha ne metta. Non sono gratis, ma a pari quantità costano decisamente meno e ti permettono di berti anche una birra (dai 6 ai 10 euro per una birra piccola) senza dover aprire un mutuo.
Di questa sudditanza culturale nei confronti delle cucine alternative, è sintomatica la costante presenza, nei ristoranti norvegesi e danesi, dell'accompagnamento al pane del coperto, quando c'è: un gradevole burro all'aglio, che unito alla presenza dell'aglio dappertutto (sarà una moda) garantisce al turista di non essere avvicinato da vampiri e corteggiatori.
Quello che si vede in foto, per esempio, è il panino che mi ha accompagnata nella gita al Lysefjörd fuori Stavanger. Contiene: ottimo pane integrale, fette di pomodoro, fette di cetriolo (crudo, non quello marinato che fa schifo perché ci mettono lo zucchero), una deliziosa insalata russa ai gamberetti, filetti di pesce in salsa, di incerta denominazione (merluzzo?) ma molto buono.
* Naturalmente in Scandinavia predomina, come negli Usa, il caffè lungo all’americana, filtrato e quasi sempre ottimo. Ormai si trova quasi dappertutto anche l’espresso e, sul modello Starbucks, tutte le sue declinazioni dal cappuccino in su. Ma per rapporto qualità-prezzo, conviene decisamente il caffè lungo.