Ho avuto anch’io il mio quarto d’ora d’infatuazione per la musica antica, qualche anno fa, quando mi immersi nell’ascolto prolungato di canto gregoriano e bizantino, trovatori e trovieri, Scuola di Nôtre-Dame e Ars Antiqua, Ars Nova e Subtilior e così via, fino alla sublime arte fiamminga, in particolare quella di Johannes Ockeghem, che pongo ai vertici dell’intera letteratura musicale. Ammetto che almeno in una certa misura è stata una moda (negli anni Ottanta spuntavano come funghi e per ogni dove gruppi dediti alla musica medievale, sulla scia dei modelli di Clemencic o del compianto – e insuperabile – David Munrow), ma certo la riscoperta della musica antica ha disvelato tesori come questo sublime mottetto di Philippe de Vitry: musica pura, fondata su rigorose strutture matematiche, eppure così espressiva e languida. Una musica che curiosamente, come alcuni hanno notato, è più vicina a molti aspetti della modernità (a certo Minimalismo, p. es., ma anche a compositori come Webern o Clementi) di quanto non lo sia quella delle tradizioni barocca o classica. Godiamocela signori, lontano dagli urli di Sgarbi, dall’orrenda voce di Maria De Filippi, dagli odiosi acuti di Al Bano, dai tatuaggi di Fabrizio Corona, dal ciuffo di Paolo Crepet, dalla faccia cubista di Ignazio La Russa, dallo sguardo idiota di Elio Vito.