Montramito (Massarosa)
Anticamente gli organizzatori del volo dell’asino dal castello di Montramito erano dei fratelli di latte dell’orecchiuto quadrupede: tarpani d’uomini, grandi e grossi, la cui madre, dopo averli divezzati del proprio latte, gli aveva rinforzato i lombi con quello di ciuca, denso, nutriente e zuccherato.
Il volo dell’asino avveniva la prima domenica di maggio, da alcuni detto il mese degli asini: i Greci e i Romani avevano per cattivo pronostico lo sposarsi nel mese di maggio. Anche in queste campagne, e giù per i greppi della Riviera, sopravvive questa superstizione.
La prima domenica di maggio, lo stradone alberato, che, traverso le lame della palude, univa il castello di Montramito al mare, era popolato da una folla compatta di popolo scalmanato, tra cui spiccavano i fidanzati giulivi; inghirlandata di rosolacci e di gigli palustri la fanciulla, sgargiante il giovanotto col fiore all’occhiello. Brenne del tutto scarnite, abbiadate per quel giorno con un pastone intriso di vino ferrato, volavano sulla via rotabile facendo trabalzare certe diligenze scollate, su cui sedevano, come al fuoco, dei contadini con le loro famiglie. I vetturali spiritati, con la frusta, pelavano la brenna e taluno, voltato il bacchetto, gli suonava la grancassa sulla schiena. La folla atterrita faceva ala sugli argini ai moderni ippogrifi. Il cornacchiare lontano delle automobili metteva lo scompiglio anche tra gli agguerriti della strada: accattarotti, vagabondi, prestigiatori e borsaioli.
Il castello di Montramito speronava con l’angolo acuto del torrione la friabile terra paludosa. L’asino, bilicando gli orecchi, un mezzo braccio l’uno, era esposto sui merli del torrione, impaludato di una gualdrappa di percalle rosso, con due ali d’oro rutilante imbracate sul dorso. I suoi fratelli di latte trafficavano intorno a un canapo e davano urli di richiamo a certi altri uomini, i quali, giù nel piano, prendevano volta col canapo alla ceppa di un platano.
L’asino, di lassù, poteva dominare l’isola dell’Asinara, l’antica sua patria: quando, del tutto selvaggia e rupestre, essa non consentiva che vi attecchisse l’uomo industre; e l’asinina famiglia, brucando cardi e gramigne, passava la vita senza emozioni volatoie.
[…] L’asino, disperato, proruppe in un raglio, da prima lungo, angoscioso, poi esplosivo e tonitruante. Apriti, cielo: quel raglio suscitò il delirio nella folla accalcata sotto il torrione. Il vino fu bevuto a bocca di barile e sui prati verdi cominciarono le danze e le merende: il raglio dell’asino, in procinto di spiccare il volo, era segno manifesto che l’annata sarebbe stata buona, i raccolti abbondanti, il vino avrebbe traboccato dai tini. Anche sul torrione si fece baldoria e il maniscalco, sopraffatto dal vino, fece un pastone di crusca, lo spense in un boccale di vino isolato e lo dette all’asino, come guiderdone per il suo raglio. Quel pastone fu come il consolo, chè l’asino si sentì volare le cervella. In quello stato fu avvinghiato da manigoldi nerboruti, sollevato e agganciato a una carrucola: e gli fu dato l’aire sul canapo, che dal torrione scendeva quasi a picco nel piano. […]
(Lorenzo Viani, Il nano e la statua nera – L’asino volante e i fratelli di latte - Vallecchi, 1943)
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