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“Loro”, di Sergio Rotino

Creato il 10 gennaio 2012 da Fabry2010

Pubblicato da mmagliani su gennaio 10, 2012

Testo introduttivo di Marino Magliani

“Loro”, di Sergio Rotino

Loro è un volume di poesia di Sergio Rotino edito da DotCom Press, con prefazione di Enzo Mansueto e postfazione di Roberto Roversi.

Riportiamo qui proprio gli scritti critici di apertura e chiusura, e al centro cinque delle poesie di Rotino, intitolate Azione (dalla prima alla quinta).

La dissimulazione del Loro
prefazione di Enzo Mansueto

Cinque lettere soltanto: paura. Non una paura. Ma, la paura: quella atavica, la sostanza traumatica del mondo, la Paura, «quella cromosomica dell’uomo». È studio in versi attorno alla paura, sin dal prologo, questo testo. E il verso, quasi atterrito, reso sospettoso e paranoide, a tratti si nasconde, in abiti di prosa oppur di cronaca, sporcati al cinematografo. O al giornalaio. O nella bruma di un’alba operaista, o nei vapori di benzina che incensano la fine dell’«omarino in tuta blu». Ma non c’è: fine.
Non vuole andare a capo, se non puoi metterci un punto sulle cose, la mano del poeta: sfonda la misura contratta(ta) del metro. Forse narra. Prende le distanze, così, o le misure, dell’informe. Ipermetrope. Non canta. Scantona. E non resta infine che una tentazione endecasillaba o per lo più parisillaba, ritornellante e fagocitata, cicatrizzante, del bel verso che sana e ringhia: «i denti ben piantati dentro l’osso».
Sì. Quasi si nasconde questa voce (l’io poetico?), dissimulata nelle mentite spoglie (cadaveriche?) di una terza persona plurale, nel Loro della netta, ma quanto ambigua, intitolazione. Ambigua, perché mai perfetta alterità, mai perfetta pluralità. Chi è, verrebbe da dire, quel «loro»? Chi sono (io-loro)? Sono due, sembrerebbe: un doppio criminale. Falsa coppia, falsaria. Agente (agenti?) doppio del terrore, della doppiezza.
O, schematicamente, due in uno, in un altro io, ma quanto indistinguibile dal sé: nella paura che si fa paranoia, terrore specchiantesi nel ghiaccio del poema. Paranoia del verbo, quando il deserto del reale ricusa ogni residua significazione: «solo contempla in funzione di se stesso / la consistenza del cosa era davanti al cosa è / mentre nuovamente la parola perde di significato e nesso».
Il mondo è fuor di sesto, quando la fobia dilata la pupilla, e ogni indistinto loro è l’ombra di un’endogena minaccia terminale: «il pericolo, l’allarme». La sensazione, prima di ciò che è, che ciò che è, è solo in funzione dell’orizzonte del non essere, comment c’est: «quel nero vuoto quel non sapere mai perché / si muore». E questo allarma, allarma. E chiama all’arma. Chiama, nel retrobottega sadomaso della coscienza, l’arma, coltello o pistola o parola, che sia: reclama, come ogni arte del discorso, l’esecuzione.
L’arma che sigilla e che minaccia lungo tutto il non-racconto di questa musicata narrazione. Parola ritmata da una musica scomoda, chiassata e schizoide. Il verso che s’allunga e si contrae, spasmodico. Il ritmo che rallenta, e già è schizzato via. Esplosioni di rumore, poi silenzi minacciosi, con allusioni noir (ma giusto un’aroma de-genere, per carità, per sapor di cronaca): a legare il tutto, il corpo disarticolato dalla tortura oscena di uno scrutare oscuro, rimandi interni, clausole ripetute, e quell’effetto “anaforico”, esteso al testo tutto, dei verbi in terza persona plurale in posizione chiave, incipitaria: muovono, lo seguono, credono, stanno addosso, ammirano, si mostrano, soppesano, aspettano, sentono addosso, sanno, distinguono, producono, spostano, se ne vanno, nascono, ricordano, perciò sanno, si rincorrono, tornano, si dicono, controllano, continuano, pensano, si sfottono, si poggiano, tengono, lasciano, leggono, si chiedono, guardano, si guardano, discendono, restano… è parola che ritma la “loro” azione, sotto la soglia della sintassi lineare. Verbi che richiamano il soggetto dell’azione, che reclamano all’azione il soggetto. Che stanano, impotenti però, l’identità del loro. Dissimulata. Sono le tracce di una caccia, quei verbi. Ma tracce che confondono, la preda e il cacciatore, soggetti-oggetti di un’inquisizione che sfuma: «lasciando per terra scomposte le impronte del loro passaggio». La banda criminale è imprendibile, il crimine è indicibile, quand’anche catturato, verbalizzato. Non bastano i crudi rimandi alla realtà fattuale, non basta un’implacabile data – 19 giugno 1991 – per dar senso alle cose: il benzinaio, sappiamo essere Graziano Mirri, a Cesena, cadde sotto i colpi di quelli, loro, della Uno Bianca. Tentativo di rapina: così le gazzette liquidarono l’infinito viluppo esponenziale delle circostanze. Ma il senso dov’è? E perché invece non leggervi il sigillo di una necessità, di un disegno, dello sprogetto della mano sinistra di Dio, che cala scongiurando, «debellando così quanto l’omarino in tuta blu voleva per suo materialistico tornaconto».
L’omarino in tuta blu: la preda dall’occhio dilatato che si vede vista in tutto questo testo. Che si fa lettore. Del «loro» dissimulato. E nel marchingegno del verso, riposiziona tutta l’esperienza. Perché è così che funziona il poetare migliore. E qui funziona bene.
Ti entra dentro, con malìa scassinatrice. E scassa. E allarma, allarma. Invita a ravvivare il filo dello stilo: Sergio Rotino, lo sappiamo da tempo, è fabbro finissimo.

Cinque poesie della raccolta Loro di Sergio Rotino:

azione prima

“Facies pallida, oculi sicci et cavi, visus hebes, lingua siccissima, saliva in ore nulla, sitis immodica, tibiæ perpetuo exulceratæ, propter frequentes casus: atque ut canes mordent.”
Thesaurus græcæ linguæ: Lykanthropia

sentono addosso le spalle il principio di tensione che si espande
e prende forme brutali di lupo pronto ad azzannare
per questo l’uno guarda la sua metà senza parlare
ma con un rancore segretamente ricambiato

poi gli indica la preda il cibo pronto per essere mangiato

azione seconda

sanno che dietro ogni presenza esiste solo il vuoto offerto dalle risposte
e con questa certezza fissata nelle tasche decidono di ripetere l’azione
così da rafforzarne il senso al cospetto della vista per meglio ingannarla
e da lei essere ingannati senza darsi pena nello specchio messogli davanti
giocando al gioco cui sono impegnati

entrano in scena si fingono avvocati pronunciano sentenza

azione terza

distinguono rapidi il da farsi dal già fatto
così che l’immagine del dopo gli possa incidere
nel cervello lo standard delle procedure necessarie
con la necessaria precisione telemetrica
quindi vanno in automatico ma senza fretta
disegnando così il destino degli altri con gesti lievemente irrigiditi
dentro le giacche da sartoria le belle giacche
l’ottusa regalia

azione quarta

producono per errore un foro nel cristallo dell’utilitaria
in quella diga sorta improvvisa fra chi il dolore doveva accollarsi
e l’emanazione del loro pensiero che si era andato formulando in linea retta
coperto dai suoni dei motorini
con gli scappamenti aperti a vomitare veleno
dalle tensioni interne dei metalli
contro l’inerme universo delle ragioni

azione quinta

spostano l’attenzione di chi resta curioso
dal fatto al presupposto dell’atto
ancora tutto da interpretare

poi stanno ad aspettare che nessuno li noti
nell’eco prodotto dai richiami delle sirene

si fanno contenitori sempre più vuoti
figure prese in prestito da subito eclissate

Una nota di lettura
Postfazione di Roberto Roversi

«Mi vengono in mente certe notti di aprile o maggio quando con papà ci affrettavamo a salire sulla Kadett per andare incontro al mare e gettare la lenza…». Ricavo questo estratto dalla pagina 230 del romanzo di Rotino, pubblicato nel 2009 con il titolo Un modo per uscirne, pieno di voci, di suoni, di struggenti anche se agri risalti, fremiti, sentimenti.
Le due righe contengono il carico di una emozionante e calda partecipata verità che si trasferisce in una scrittura beneficata dall’empito giovanile (l’emozione dei ricordi). Vorrei dire che nel romanzo (che è tutto da leggere e che consiglio di leggere) c’è un movimento ascensionale proteso a recuperare motivi esistenziali al fine di una chiarezza esistenziale. Agritudine della vita intesa come faticosa quotidianità. È come se la musica, le bande, i gruppi ispidi e agresti suonassero non tanto per annunciare e travolgere quanto per estrarre col forcipe il trillo di appassionate memorie. E lanciassero ferree vibrazioni.
Non è passato troppo tempo. Il romanzo, come ho ricordato, è datato 2009, questo carico di bombe verbali è datato 2011 e potrei prefigurarlo anche come una fabbrica (una fonderia) intenta a un lavoro senza intermittenza (dato che queste pagine vibrano come se fossero assediate dal fuoco).
A questo proposito, e almeno a mio parere, potrebbero risultare indicative anche le due righe a pagina 65: «tengono lo sguardo fisso sull’argine della rotaia / sul punto vuoto che divide la terra dall’acciaio». Ma anche una riga a pagina potrebbe suggerirci una chiave di interpretazione: «le ombre loro più nere dello stesso vicolo asfaltato».
Un testo impietoso, che interagisce con insistenza e con una scansione di estrema durezza nel sistema ricettivo del lettore. Rotino, in queste pagine, non abbandona i sentimenti al fascino dell’usura, si oppone alla loro consunzione con la fermezza di una scrittura che si sottrae alla lacrimazione ma lascia che si confrontino negli ambienti in cui possono via via lacerarsi in un silenzio determinato, oppure in un frastuono allucinante…
Quelli che si muovono dentro a questi testi in un lacerante frastuono o sibilo di parole sono sussulti di pensiero (di pensieri), rotoli spinati
con riflessioni congiunte, trascrizioni rabbiose, rimandi esplicativi e ferocemente suggestivi, in successione o cancellazione concatenate e vincolate. Un breviario forsennato e medievale di riflessioni poetiche vincolate, dilatate impietosamente, fino a una rigida esasperazione.
Inseguite, sembrerebbe, mentre cercano di sottrarsi a inquietudini atroci. C’è un “loro” come impianto costante in queste lasse che percepisco come forza sempre all’erta e oppressiva a coordinare il marasma delle nostre incerte giornate.
La grande fabbrica della vita, coi suoi opprimenti rumori, le sue non procrastinabili scadenze, le sue prepotenze, le sue infuriate speranze, le sue folli presunzioni, le sue laceranti delusioni. Un libro non lo tace ma dice.
La fine del mondo (di un mondo) è avvenuta, l’autore scrive e ci avverte (noi superstiti) il giorno dopo, i giorni seguenti. Traccia la mappa delle distruzioni, indica con ferocia le residue sostanze. Fra il fumo e il fuoco residui ci conferma, noi pochi, che siamo ancora vivi.


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