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Los Angeles, il post che cercavo. Parte seconda

Creato il 31 luglio 2014 da Paola Annoni @scusateiovado
Los Angeles, il post che cercavo. Parte seconda

Malibu è senza dubbio una delle cose che mi ha più fatto alzare il sopracciglio (quello della perplessitá): nel mio immaginario era una specie di Las Vegas senza casinò ma con casino, piena di locali, spiagge attrezzate, biondone con UGG e costumi da bagno. Salvo poi scoprire che è una tranquilla cittadina di mare non troppo affollata, con le case giustamente distanziate e all'americana (ovviamente in alcuni punti diventano sottilette..!) e ville nascoste da vegetazione abbondante. Niente di strano per LA, insomma. Forse perché prima di andare abbiamo guardato il video in cui Buffa racconta la casa di Jimmy Goldstein ed io ero convinta che fosse a Malibu (è a LA, for the records)... ? Forse.

Fatto sta che abbiamo fatto colazione da McDonald's - e ho scoperto la mia nuova droga legalizzata, l'Horchata Frappè - e fatto un giro nelle spiagge libere visto che le altre più belle consigliate (El Matador State Beach, Zuma e Westward Beach) sono a pagamento, quindi per entrare semplicemente a fare un giretto abbiamo preferito saltare, l'elenco delle cose da fare era già infinito.

Los Angeles, il post che cercavo. Parte seconda

Alle 10 spaccate ci siamo presentati all'ingresso della Getty Villa, e la prima cosa che c'è stata chiesta è "avete la prenotazione?"... Ehm, WTF!? No... Decisamente no. Non c'è scritto da nessuna parte che bisogna prenotare ( o almeno, io non l'ho letto!) ma hanno dei biglietti in più che gentilmente ti danno. Credo che la regola valga più o meno così: chi prima arriva meglio alloggia, chi va via perde il posto all'osteria (forse la seconda parte non centra).

L'ingresso a questa immensa villa è GRATUITO, quindi volentieri paghiamo 15$ per il parcheggio. Appena arrivati un'attempata signora ci chiede se vogliamo fare una visita guidata (gratis) o se vogliamo vagare da soli, ci chiede la nazionalità e ci dice che ci sono brochure anche in italiano, ci spiega le visite guidate, dove salire, di ricordarci dove avevamo parcheggiato, di chiedere informazioni ulteriori al bancone. Sono andata in bagno. Per un attimo ho avuto paura di averla dietro che mi porgeva la carta igienica.

La villa è a dir poco straordinaria. E' una riproduzione/ reinterpretazione di una villa storica, la Villa dei Papiri (o dei Pisoni), ritrovata vicino gli scavi della sepolta Ercolano, dato che il creatore di questo "tuffo nel passato", Paul Getty, era un grande appassionato di arte greca e romana. A parte la meraviglia del posto, ed il contenuto del Getty Museum che mi fa piuttosto incazzare (la quantità di reperti storici di casa nostra è IMBARAZZANTE... Che minchia ci fa tutta sta roba qui?) è curioso scoprire qualcosa di più di questo personaggio che ovviamente viene raccontato romanzato. In due righe: ricchissimo petroliere che ha investito pure in Italia a quanto pare era un po' sfigato (la villa finita non l'ha mai vista, era a Londra quando è morto) e pure un po' stronzo. Cito direttamente da wikipedia:

"Famosi sono gli aneddoti sulla sua avarizia. Uno di questi racconta che avesse telefoni a gettoni per gli ospiti. Nel 1973, quando suo nipote John Paul Getty III venne sequestrato in Italia dalla 'ndrangheta, rifiutò al figlio Paul Getty i soldi per il riscatto dicendo "Ho 14 altri nipoti, e se tiro fuori anche un penny avrò 14 nipoti sequestrati". Soltanto quando i rapitori faranno pervenire alla famiglia l'orecchio mozzato del nipote egli tornerà sulla sua decisione. Dopo aver pagato il riscatto, di circa 2 miliardi di lire, impose al nipote liberato di restituirgli ratealmente tutti i soldi con un interesse annuo del 4%"

E' tutto dire.

E' davvero molto interessante la visita, merita uno stop e qualche ora di relax per sentirsi un po' a casa.

Per il primo pranzo (sì, ok, anche il secondo giorno abbiamo mangiato due volte per pranzo!), ci siamo diretti a Downtown, dove avevamo scelto poi di passare in parte il pomeriggio ed il dito è caduto sulla mappa in zona Chinatown, ma per un panino in un locale storico chiamato Philippe The original (tanto per non sbagliarsi con qualche altro Philippe che fa panini), celebre per il suo French Dip sandwich, un panino semplice con il pane imbevuto appunto di French dip. Traduzione. Vostra madre non vi ha mai mandato in gita con la parrocchia preparandovi il panino con l'arrosto avanzato "perché tanto è sempre carne" e tutto il pane poi cadeva un po' a pezzi perché si era tutto inzuppato della salsina della carne? Ecco. Niente di più, niente di meno. Solo che qui lo paghi 6 dollari ed è senza l'ingrediente segreto (l'amore della mamma).

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Il panino l'ho mangiato più o meno senza accorgermene perché si è messo a chiacchierare con noi un tizio di Los Angeles che ci ha chiesto se eravamo pazzi ad andare nella Death Valley e ci ha detto di tirar dritto per il Colorado. E che lui era appena tornato dall'Alaska, dove c'erano 16 gradi e si stava meglio (quel giorno a LA c'erano circa 30 gradi). Ma dai?

Dopo le grandi rivelazioni (ed un panino che decisamente non mi ha soddisfatta) abbiamo camminato un po' verso il Pueblo storico ed altre zone di downtown.

Il Pueblo de Los Angeles è una via messicaneggiante con tante bancarelle che vendono cose più o meno peruviane, da più o meno messicani, si possono mangiare tacos per pochi dollari e vedere la casa più vecchia di Los Angeles (che era più o meno come la casa di mia nonna in Spagna). Una curiosità da sottolineare è la presenza di brochure che raccontano la storia degli insediamenti dei diversi coloni. In francese la storia di come sono arrivati loro, in italiano quella degli italiani e così via. Ben fatto, carino, gratis.

Ma il pueblo è veramente finto e pacchiano, passateci in mezzo ma non dedicateci troppo tempo.

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Poco distante, un paio d'ore memorabili: a Los Angeles, c'è Little Tokyo! Come prima cosa ci siamo fatti un ramen (ok, siamo fissati, ma c'è gente che può confermare che diventa una dipendenza e una malattia trovare il ramen perfetto... O comunque una cosa che ci assomigli lontano dal Giappone): tappa al Daikokuya, che pare essere il top a LA. Entrati oltre la tendina mi è presa una morsa al cuore: se quello del giorno prima era in un locale moderno anche se il cibo era giappo, questo è un vero locale del paese del sol levante. Interni, profumi, arredi... Tutto, a parte la tavoletta del water che era normale. Stretta al cuore e stomaco allargato quando mi hanno presentato la ciotolona fumante di noodle. "Normale"per me, spicy miso per Gianni. Ottimi entrambi (prezzo circa 9$). Usciti da lì abbiamo fatto un giretto per il quartiere giapponese, o meglio, Gianni si è seduto in un angolo giocando a 2048 mentre io correvo tra prodotti per il viso che ti fanno tornare la pelle come quella di un bambino (c'era sulla confezione!), shampoo (ok, mi emoziono per poco, ma è bello riprendere in mano a LA il campioncino di un prodotto per capelli che ti hanno omaggiato a Tokyo e pensare che ancora ce l'hai a casa perché non butti niente!), a prodotti alimentari originali. Sono letteralmente impazzita. Seriamente, si fa un tuffo nel Giappone a tutto tondo. Dolcetti, negozi, mode, prodotti, frutta e verdura, bevande. TUTTO. Attimo di commozione, un paio di cioccolatini al matcha, una lacrimuccia... E rimettiamo piede in terra statunitense.

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Proprio lì vicino c'è il central market, in cui vi consiglio di fare un giro se state cercando cibo di buona qualità e magari qualche vitamina per compensare le proteine che da queste parti... Beh, troneggiano su qualsiasi altro cibo (qualcuno ha mai scritto un'ode alla carne secca? E' poco veg, ma potrei pensarci io!). Ha l'aria del mercato orientale, con bancarelle e banconi su cui mangiare, varietà, insegne luminose e senza dubbio, un livello di igiene più alta.

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Sempre a Downtown una cosa da non perdere è senza dubbio il Bradbury Building, un palazzo visto di fine ottocento (insomma, vecchissimo!) celebre per aver fatto da set a Blade Runner e ad altre decine di film (tra cui Arma letale 4 e un po' più culturare... The Artist), in cui si può tranquillamente entrare e gironzolare fino al primo piano, visto che sono ancora uffici. Tra le curiosità, anche il signor Bradbury era uno piuttosto ricco... Ma che il suo grande progetto non l'ha visto finito. Morto prima. Ragazzi, io non mi metterei a costruire opere troppo maestose a Los Angeles che non si sa mai.

Temporeggiamo e ci sediamo davanti al MOCA aspettando le 5: sì perché è venerdì e quindi si entra gratis (dalle 5 alle 8), anche perché risparmiare 24$ non fa mai male.

Allora, il museo è bello, per il contenuto dovrei aprire un dibattito sull'arte contemporanea che probabilmente non saprei validamente sostenere e che quasi sicuramente non interesserà a nessuno.

Quando penso a come esprimermi su una cosa che non mi piace mi viene sempre in mente mia madre che mi ha vietato la parola "schifo" sin da piccola, e a cui ho sempre dovuto trovare dei personali sinonimi.

E quindi sostituirò il "non si dice che fa schifo, puoi dire che non ti piace" con "sto museo non è stato di mio gradimento e le panchine su cui sedersi sono state la cosa più entusiasmante".

A parte gli scherzi, gran parte è composto da esposizioni temporanee, e a noi, diciamo che ci è andata proprio male.

Di indubbia (e disarmante) bellezza invece è la Walt Disney Concert hall, una maestosa struttura futuristica che mi ha scatenato le stesse buone vibrazioni di quella di Shanghai. E' arte in cui verrà espressa arte. Sublime. CItando Troy McClure, forse vi ricordere dell'artista in questa puntata dei Simpson, fatto sta che l'opera disegnata da Frank Gehry, dalla storia travagliata, sembra uno schizzo su carta diventato realtà. Imperdibile.

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Per il tramonto ci dirigiamo verso il Griffith Observatory passando ancora per Hollywood Blvd - ancora piena e strapiena di gente- e Sunset Blvd , e ancora una volta non ci fermiamo. Los Angeles è bella a suo modo, andate oltre.

L'osservatorio, oltre a regalare tramonti straordinari sulla città (ed insulti a chi si siede sul cornicione delle terrazze alte...!) è anche una scuola di rudimenti scientifici per ignoranti e per quelli che a scuola disegnavano o leggevano e per cui i numeri hanno sempre rappresentato il nemico: qui puoi toccare tutto ed assistere ad esperimenti, farti spiegare come funziona il telescopio od il pendolo di Foucault.

E poi aspettare che il sole si nasconda e Los Angeles si illumini di luce propria.

L'abbiamo salutata così. Tra le ville di Rodeo drive (ci sono anche ville di un certo livello, non solo i negozi!) e una tappa al Chateau Marmont, lo storico hotel delle star, in cui è morto John Belushi e Sofia Coppola ha ambientato il suo Somewhere.

Non si può entrare.

Los Angeles ti lascia addosso una sensazione di totale inaccessibilità, come se il mondo reale, quello vero che abita la città, fosse da un'altra parte e tu puoi solo provare ad afferrare l'inafferrabile e sognare di essere qualcosa che non sarai mai.

Mi ha stupita, non so se mi è piaciuta. Ci sto ancora pensando. Forse la ragione è la stessa per cui quel piccolo assaggio di New York di due anni fa mi ha lasciata un po' così, col naso arricciato: quando vedi l'America, quella della natura sconfinata e dura, quella dei deserti e dei paesini che sopravvivono in mezzo al nulla, quelle del caldo violento dei deserti e delle piogge torrenziali del Golfo del Messico, quella dei panini avvolti nella stessa carta da 50 anni, delle persone che ti chiedono davvero se sei felice di essere lì... Beh, le grandi città cosmopolite ti sembrano un po' meno "personali" e forse, più solitarie di un posto disperso nel nulla. Ci devo pensare, intanto, partiamo per i deserti.


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