Alfred Hitchcock una volta spiegò a Francois Truffaut ((episodio narrato nel libro intervista “Il cinema secondo Hitchcock” di Francois Truffaut.)) che un MacGuffin non è altro che un oggetto o un personaggio che serve a portare avanti l’azione di un film. Può essere un tesoro, una donna rapita o un uomo da uccidere, ma fondamentalmente un “MacGuffin non è nulla”, è solo un espediente narrativo che gli autori usano per dare una motivazione alle azioni dei propri personaggi.
L’ultima opera di Jason s’intitola Lost Cat ed è una storia che ruota intorno ai MacGuffin. Il racconto parte come un classico film noir anni ’40 con il detective che aspetta i propri clienti nel suo ufficio. A fine giornata saluta la sua segretaria e sulla via di casa trova un gatto disperso che decide di riconsegnare alla proprietaria. Dall’incontro tra la padrona del gatto e il detective alla Bogart nasce una serie di eventi in parte collegati tra di loro che costruiscono la trama dell’opera.
Jason cita i film pulp e noir con i loro trucchi e cliché, ma il legame tra il cinema e questo fumetto si ferma al citazionismo. L’autore norvegese è, infatti, un maestro nell’usare il medium fumetto e ne sfrutta tutti i mezzi e le potenzialità; la storia che ci viene raccontata non ha nulla di cinematografico e solo il fumetto ha le capacità di poterla raccontare. L’uso della parola scritta e del disegno, la struttura delle tavole, le vignette, tutto è quanto mai distante dal linguaggio dei film.
In Lost Cat le tavole sono tutte quadrate e ogni pagina è divisa in quattro vignette tutte perfettamente uguali e, quasi a marcare la distanza tra i due mezzi espressivi, nel volume le vignette sono tutte verticali. Le inquadrature sono spesso oblique o laterali, pochissimi campi e controcampi, nessuna concessione quindi al vocabolario tipico del cinema.
John Arne Sæterøy, in arte Jason, ha iniziato a esplorare il mondo dei baloon quando aveva quindici anni, nel 1995 ha pubblicato la sua prima graphic novel con una minuscola casa editrice norvegese e nel 2001 è sbarcato in USA grazie alla Fantagraphics. Nel corso degli anni ha elaborato uno stile semplice e pulito, ha abbandonato quasi subito il disegno realistico e adesso i suoi personaggi sono tutti cani e gatti antropomorfi. In un’intervista che rilasciò nel 2004 [1] , spiegò di aver deciso di scrivere e disegnare storie senza parole per creare dei fumetti più facilmente esportabili e perché era evidente che il norvegese non fosse la lingua migliore per poter essere compresi da tutti.
Grazie a questa ricerca sul fumetto muto, Jason ha acquisito un magistrale controllo delle vignette e del ritmo della storia. Lost Cat è un esempio perfetto per capire come l’autore possa usare tempo, parole e segno grafico per comunicare un infinito spettro di espressioni ed emozioni.
Un esempio è la scena in cui il detective si prepara delle uova sode. Otto vignette su due pagine per raccontarci un dettaglio apparentemente insignificante della vita di una persona, ma la storia si ferma lo stesso, rallenta il suo percorso per permetterci di osservare questo piccolo gesto terribilmente quotidiano. E Jason ci racconta, piano piano, con la giusta lentezza, tutti i gesti dell’uomo che si cucina questa triste e solitaria cena. Sono vignette senza balloon, ma riusciamo quasi a leggere i pensieri del detective.
Un altro interessante esempio, questa volta però usando anche la parola scritta, è quando il detective e la proprietaria del gatto s’incontrano, c’è un lungo dialogo tra i due, una classica conversazione tra estranei che si sono appena conosciuti. Lei gli offre un caffè e poi si siedono a berlo, niente di più. Le battute tra i due sono perfette, è un botta e risposta esattamente bilanciato, nessuno dei personaggi si dilunga troppo, le domande e gli scambi di battute avvengono esattamente quando dovrebbero esserci.
Tutto il dialogo riempie più di venti pagine e mentre leggiamo i balloon, le immagini ci mostrano l’uomo e la donna che parlano e il mondo che è attorno a loro, le vignette alternano scene d’interni con esterni che riprendono scorci della città dove vivono i due. Il ritmo delle immagini e delle parole si mescola per creare un effetto e un’emozione che solo il fumetto può trasmettere.
I MacGuffin entrano ed escono da questo libro, alcuni sono solo pretesti, altri forse sono il cuore del racconto. Ci sono un quadro, una donna scomparsa e il suo gatto, espedienti per raccontare una storia onirica e piena di melanconia, tematiche classiche della produzione di Jason [2] che in questo fumetto vengono esplorate con la solita delicatezza. Quando si chiude il libro, un po’ stupisce realizzare che tutte quelle storie e quelle emozioni siano raccontate con disegni semplici e usando attori che sono delle maschere impassibili, cani e gatti che nei lavori di Jason non hanno alcuna espressione facciale, hanno occhi senza pupille e mani enormi che usano per interpretare la pantomima del racconto.
E forse questo è l’altro legame tra tutta l’opera dell’autore norvegese e il cinema: la pantomima, l’arte di usare il proprio corpo per recitare, una tecnica che tanta importanza ebbe nello sviluppo dei film nei primi anni di vita di questa arte. Quel periodo in cui il sonoro non c’era ancora, Alfred Hitchock imparava a raccontare storie pulp e Buster Keaton faceva ridere le masse con la sua faccia impassibile, proprio come i personaggi delle storie di Jason.
Abbiamo parlato di:
Lost Cat
Jason
Fantagraphics Books, 2013
150 pagine, rilegato, due colori $ 24.99
ISBN: 978-1-60699-642-3
Note:
- http://www.comicbookbin.com/charlie32.html [↩]
- per approfondire l’opera di Jason si consiglia la lettura di questo articolo di Omar Martin: Jason: tra ligne claire esistenzialista e passione per il cinema [↩]
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