di Alfio Squillaci
Ho letto questi due libri durante la mia vacanza di “Natale con crociera sul Nilo”, in una situazione da cinepanettone quindi, tipicamente “irrazionalpopolare” secondo il neologismo di Mastrantonio/ Bonami. Non essendo né Des Esseintes né Vivant Denon *, né un esteta né un viaggiatore d’eccezione, era ovvio che la mia scelta di uomo-massa fosse condivisa con altri uomini-massa, tutti italiani. Ma se vuoi andare per geroglifici, piramidi e templi non hai altra scelta oggi: il risultato è stato di ritrovarmi felicemente intruppato in una campionatura di connazionali del nord Italia davvero variegata per composizione sociale e reddituale, con il commento live di una sposina veneta dietro me che annotava tutto ciò che le passava sotto gli occhi (dall’annichilente periferia del Cairo all’ultimo geroglifico) con una ciacola sciolta e impressionistica e tutta egoriferita a mondi culturali minimi, perlopiù televisivi, totalmente governata ossia dall’egemonia sottoculturale di cui discute Panarari nel secondo libro. In certi momenti – ricordo l’ultimo giorno a Luxor ed eravamo sulla tolda della nave ancorata all’attracco –, ho visto però la potenza della penetrazione della subcultura italiana quando una canzone di Laura Pausini, proveniente dall’altoparlante della nave, si fuse, in un raccapricciante mix culturale, con i richiami cantilenanti dei muezzin provenienti dall’alto dei numerosi minareti; o allorché, durante l’escursione in un villaggio nubiano, siamo stati assaliti da una torma di mocciosi che ci adescava coi loro manufatti rigorosamente made in China cantando “Quel mazzolin di fiori” (terribile!) e anche al grido ossessivo di “Italia Uno!” – ma ho colto anche un mostruoso “ItaliaUnoCanaleCinqueReteQuattro!”–. E dunque, anche i bimbi niobi irretiti, è proprio il caso di dirlo, dal palinsesto delle “quattro c”: calcio, cosce, canzoni e cazzate col quale si trastullano i connazionali dalla metà degli anni Settanta? E giunto laggiù attraverso chissà quali percorsi di trasmigrazioni culturali?… Non saprei: avvistate però antenne paraboliche dappertutto al Cairo…
Il libro di Mastrantonio/ Bonami è teso a enucleare e stigmatizzare una particolare conformazione assunta dalla cultura di massa in Italia. Il neologismo di “irrazionalpopolare” si ispira al termine gramsciano “nazional-popolare” e intende sottolineare gli slittamenti progressivi della subcultura nazionale e popolare italiana verso forme di particolare degrado estetico attraverso un catalogo di “oggetti culturali” (la formula è di Roland Barthes) che va dai libri-feticcio di Moccia ai film di Benigni; dai cinepanettoni (ahi ci sono anch’io!) agli oroscopi; dalle mostre degli impressionisti alle derive del “pensiero debole”; dai centri commerciali ai programmi televisivi tipici del palinsesto delle “quattro c”, finanche ai blog e agli Ipod (“Il successo dell’Ipod è stato reale, secondo molti senza una reale motivazione, una popolarità immediata, su larga scala, irrazionale”)… Insomma il trash commisto con il cult, il mass-cult e il mid-cult, tutto l’universo culturale e televisivo col quale conviviamo oggi nel Belpaese.
Un catalogo indagato con acume critico che non sempre mi ha trovato in plaudente sintonia. Se fossimo in un contesto tedesco il termine da usare sarebbe quello di “dialettica” di lontana derivazione kantiana (dialettica trascendentale), e “dialettica della società di massa” potrebbe essere pertanto il sottotitolo del libro, ossia estrinsecazione concettuale e trattazione filosofica di fenomeni culturali complessi sulla falsa riga con cui Horkheimer/Adorno scrivevano una “Dialettica dell’illuminismo” o Walter Benjamin nel suo libro sui Passages voleva fare una “fantasmagoria dialettica” di Parigi. L’equivalente di “dialettica” potrebbe essere “spiegazione colta”, da qui il voltaggio espressivo della prosa palestrata, alticcia, semanticamente anabolizzata dei Nostri.
Umberto Eco adottava, per gli stessi fenomeni e con gli stessi intenti critici, il termine di Fenomenologia (celebre quella di Mike Bongiorno), ma il libro di riferimento rimane quello di Roland Barthes, Miti d’oggi o in subordine Nuovi riti nuovi miti di Gillo Dorfles. Ciò per sottolineare quanto ormai antico e canonico è questo tipo di approccio con la cultura di massa, tanto da diventare quasi un genere letterario, in cui questo libro di Mastrantonio/ Bonami si iscrive tripudiante.
Col genere il libro condivide, e qui siamo alla mia critica-critica, una strisciante deprecatio temporum e, causa l’assoluta assenza di humour, un sottotestuale malcontento filosofico verso la cultura di massa. Ora, intendiamoci, esistono le élite colte perché esistono le masse e anzi, parafrasando Omero, si potrebbe dire che gli Dei ci danno le sciagure culturali perché i Poeti abbiano di che cantare, se vogliono cantare. Per parte mia appartengo al genere di persone che esclude, per neutrale scelta del telecomando, senza snobismo ossia, né apocalittico né integrato, la sistematica visione del “Grande Fratello” o dell’ “Isola dei famosi” neanche a scopo documentaristico, del tipo “occorre vedere ciò che vedono le masse per farsene un’idea”, essendo l’idea sempre quella: le “quattro c” opportunamente miscelate, e per il resto diagramma piatto. Sapevamcelo, insomma. Che senso ha vedere alla TV Simona Ventura per poi farne una dialettica trascendentale e definirla “l’evoluzione della valletta”? Boh, mah.
Il malcontento filosofico, poi, è condivisibile a patto che lo si relativizzi e contestualizzi (come le bestemmie per Monsignor Fisichella) con altri mondi culturali, di oggi come di ieri. Può darsi, anzi ne sono certo, che il benessere diffuso possa aver procurato qualche malessere, antropologico, culturale. Alla fine degli anni ’50 ad esempio – l’Italia alle prese col primo benessere innocente di Carosello che la immetteva, finalmente, nell’affluent society– nella filmografia di Antonioni (“Il grido”, “L’avventura”) , venne prefigurata di già, ma clamorosamente presa in prestito da contesti culturali altri, un’atmosfera posticcia e ridicola vista oggi, di Angst tutta nordica, neanche fossimo il paese di Bergman, trascendendo dialetticamente dal Paese mediterraneo, maccheronico, contadino e cattolico che eravamo. E da cui, con un clamoroso scatto di reni prendevamo vivaddio le distanze proprio in quegli anni con grande sforzo e fatica d’olio di gomito (succeduto all’olio di ricino), sforzo immane che tuttavia la cultura di base magico-sacramentale italiana, sbagliando clamorosamente, definì “miracolo” economico… “Miracolo” di che? Neanche avessimo visto la Madonna… (Gnente, gnente, t’appare la Madonna e te pare la pubblicità del Sanbittèr, ironizzerà in seguito Renato Zero giocando tra sacro e profano sugli stessi temi). Ma, tutte le proporzioni viste, c’è da aggiungere subito che le moltitudini accorrono da tutte le parti del mondo, anche da questo Egitto nubiano, “votando coi piedi”, proprio per vivere irrazionalmente e popolarmente il nostro malessere del benessere, il quale in ogni caso, evidentemente, è preferito al loro malessere del malessere. Come anche noi facciamo col nostro di appena l’altro ieri. Essì, perché negli anni ’50, vedi La luna e i falò, c’era tanta fame che i cani abbaiavano alla luna scambiandola per polenta. Tutto ciò, non trascurando di dire che il benessere del benessere è invece da sempre appannaggio delle élite (anche culturali che sanno ricavare dialetticamente il proprio benessere spirituale da tutto, anche dal trash, opportunamente trattato) essendo il mondo, da sempre, dannazione!, “una festa per pochi e un inferno per molti” come avvertiva don Lisander.
Ma il libro non è solo una rassegna di comportamenti irrazionalpopolari: accoglie anche riflessioni dotte sui libri di Saviano, Stella, Fallaci, Ramadan, Baricco del tutto condivisibili e che attribuisco alla penna affilata e intelligente di Mastrantonio che ho letto già nel Riformista, e di cui deploro qui, tuttavia, il ricorso disinvolto e redazionalmente sciatto al copia e incolla e taglia e cuci di interi brani ripetuti, talquale come l’immondizia a Napoli, nello spazio di alcune pagine dopo. Del tutto non condivisibili i giudizi critico-estetici, che attribuisco alla penna di Bonami, specie le sanzioni della pittura impressionista e la stroncatura, davvero ingenerosa a Passepartout, la trasmissione televisiva di divulgazione artistica di Philippe Daverio che adoro, oltre alla decantazione estatica di Cattelan, provocatorio e fortunato artista di cui si riporta in copertina un’opera.
***
Pur rimanendo nello stesso ambito tematico di lontana ascendenza gramsciana prescelto da Mastrantonio/Bonami, il libro di Massimo Panarari ha qualche pregio in più: innanzi tutto quello di nascere – come libro in sé dico- con l’idea stessa che intende dimostrare, e non di essere una raccolta di saggi collegati da una idea seminale raggiunta solo ex post e aggiunta come collante. Il testo ne guadagna in snellezza argomentativa (anche se nello stile redazionale Panarari forse per consonanza col tema di fondo popular non rinuncia a qualche giro di frasecasual e pop non sempre felice ) e seppur nella sua brevità esibisce anche una curvatura “narrativa” ben precisa.
L’assunto di fondo del libro è che la sinistra italiana ha perso a partire dagli anni Ottanta la sua presa egemonica sulla cultura popolare, sconfitta clamorosamente in quest’ambito diciamo così “demo-psicologico”, dalla destra neocapitalistica attualmente al potere, la quale, col governo (ma io direi prima col semplice possesso) dei media (dalle televisioni ai rotocalchi), ha saputo opporgli invece un’egemonia sottoculturale delle masse popolari, dimostrandosi in tal modo più “gramsciana” della stessa sinistra che pure possedeva lo “schema di gioco” di fondo su cui si combattono – in quello speciale terreno mentale-culturale già individuato da Gramsci allorché intuì che non era più tempo di scontri frontali e di prese dei Palazzi d’Inverno–, le guerre o le vere rivoluzioni oggi.
Dai tempi dell’avvento della televisione commerciale fino al controllo dei rotocalchi ultrapopolari (TV Sorrisi e Canzoni, Chi) dalle trasmissioni televisive tipo Drive In ai reality televisivi più invasivi, la destra ha saputo manovrare delle vere e proprie armi di “distrazione di massa” al molteplice scopo di governare l’immaginario popolare più indifeso, di saper istillare subdoli messaggi subliminali diretti alla persuasione più o meno occulta dello spettatore/ consumatore/ elettore, ormai unica entità ed identità “totalmente amministrata” (la locuzione è di Horkheimer/Adorno), di narcotizzarlo insomma con sapienti strategie di rilassamento giovandosi di “pusher di format” televisivi e/o di strumenti di desublimazione repressiva, proprio nel terreno più friabile e poroso, la sottocultura popolare. Inizialmente rivoluzione estetica ha avuto non casuali riflessi etici e infine politici.
Davanti a questo scenario tremendo, di vera e propria “mutazione antropologica” (la locuzione è di Pasolini) che abbiamo davanti agli occhi, torna la domanda di Cernisevskij–Lenin. Che fare? Panarari non ha dubbi ed io sono d’accordo con lui: à la guerre comme à la guerre: la sinistra deve rispondere colpo su colpo e non lasciare alla destra non presidiato il campo di gioco dei media e della cultura popolare.
Ora, detta così sembra una cosa facile facile, non dico la contrapposizione di un disegno egemonico all’altro, ma il tema in sé sollevato da Panarari. Infatti non appena lo si vuole afferrare da qualche capo mostra subito le sembianze di una matassa intricatissima. Pertanto mi esonero dal dare un resoconto ancor più dettagliato del libro e mi allontano da esso per inseguire alcune mie idee sull’argomento che farò interagire col testo di Panarari.
Innanzi tutto, di cosa stiamo parlando? Di egemonia della “cultura popolare” o della “cultura di massa”? Non sono la stessa cosa. Della prima fa parte “Quel mazzolin di fiori” della seconda Drive In e tutto il “palinsesto della 4c”. Ai tempi di Gramsci non esisteva o esisteva in forme molecolari la “cultura di massa”, nel senso che noi diamo oggi alla locuzione-concetto, ma soltanto la cultura popolare (che Gramsci talvolta sintetizzava col termine “folklore”) poiché infatti non era ancora nata (e/o non individuata concettualmente) la cosiddetta “industria culturale” (furono i teorici della scuola di Francoforte a sistematizzarla), ossia la grande generatrice e manipolatrice della cultura di massa. La cultura di massa non esiste senza le masse, ovvio. E il termine massa rimanda a un concetto novecentesco: designa il popolo (non ha importanza se rurale o urbano) purché raggiunto dai mass media (radio, cinema e TV essenzialmente, mezzi che abbattono le distanze e gli ambienti “culturali” che erano stati da millenni fino ad allora differenti: urbanitas e rusticitas). “Mezzi di distrazione di massa” che ovviamente non esistevano nell’Ottocento delle plebi rurali o urbane che fossero, al massimo raggiunte da qualche organetto di Barberia come mass-medium del tempo. Il discrimine – mi si perdoni questo didatticismo assolutamente necessario – è dunque dato dall’incontro del maggior numero di persone e i mezzi di comunicazione di massa. Ma la semplice massima diffusione non basta.
Lascio la parola al teorico principe di questa tematica : « In una certa misura, il Masscult è una continuazione dell’Arte Popolare, ma le differenze colpiscono più delle somiglianze. L’Arte popolare crebbe principalmente dal basso, prodotto autoctono formato dal popolo per i suoi bisogni anche se sovente prendeva l’imbeccata dall’Alta Cultura. Il Masscult invece viene da sopra: è fabbricato da tecnici al servizio degli affaristi. Essi provano questo e quello, e se qualcosa piace alla direzione commerciale, cercano di far soldi con prodotti similari, come i consumer-researchers con un nuovo cereale, o un biologo pavloviano incappato in un riflesso che egli crede possa esser condizionato. Una cosa è soddisfare i gusti popolari, come faceva la poesia di Robert Burns, e un’altra è sfruttarli, come fa Hollywood. L’Arte Popolare fu istituzione stessa del popolo, l’orticello al riparo del grande parco ufficiale dei padroni. Ma il Masscult abbatte il muro, integrando le masse […] e diventando così uno strumento di dominazione». (Dwight Macdonald, Controamerica, Milano Rizzoli 1969, p. 29)
Chiaro? America anni ’50 in cui scriveva Macdonald; Italia anni 80 in cui Ricci cucinava i suoi programmi per il Biscione: ci sono differenze o siamo ancora lì? Quindi il Masscult è dato dalla diffusione più la manipolazione della cultura di massa. Che è popolare nella misura in cui i manipolatori sanno armeggiare con i gusti popolari di massa, che da tempo immemorabile sono quelli che piacciono all’inclita di sempre: sesso, soldi, successo, sangue. Guai se dimentichiamo questo secondo aspetto, quello della manipolazione e della cucina a freddo di stilemi, format, pensati e somministrati artificialmente. Altro che «spirito popolare creativo» di cui parlava Gramsci nelle sue note: qui siamo di fronte a una piccola risma di dotti (hanno studiato filosofia o filologia i manipolatori) al soldo di un’azienda commerciale che narcotizza una moltitudine di indotti per ricavare un profitto: siamo davanti a veri e propri “pusher di format” (la locuzione è del compianto Edmondo Berselli).
Per precisare meglio il concetto e per riprendere in mano un “ferro vecchio”, Marcuse, aggiungiamo con lui che i « prodotti indottrinano e manipolano; promuovono una falsa coscienza che è immune dalla propria falsità. E a mano a mano che questi prodotti benefici sono messi alla portata di un numero crescente di individui in un maggior numero di classi sociali, l’indottrinamento di cui essi sono veicolo cessa di essere pubblicità: diventa un modo di vivere» (L’uomo a una dimensione, 1967, p. 32, corsivo mio). Marcuse parlava di tutti i prodotti intesi come merci, ma anche «dei mezzi di trasporto e di comunicazione di massa» e del [..] « flusso irresistibile dell’industria del divertimento e dell’informazione» i quali «recano con sé atteggiamenti ed abiti prescritti, determinate reazioni intellettuali ed emotive che legano i consumatori, più o meno piacevolmente ai produttori, e, tramite questi all’insieme». Per lungo tempo ho pensato con Michael Walzer (L’ intellettuale militante. Critica sociale e impegno politico nel Novecento, Il Mulino 2004) che quando Marcuse alludeva all’insieme (come nel passo appena citato) o al sistema si riferisse a tutto ma anche a nulla. Walzer rilevava polemicamente che la critica alla società ad una dimensione di Marcuse rivolta, com’è, ad un “tutto repressivo”, dove è difficile distinguere amministratori ed “amministrati”, spiriti autonomi e masse eteronome, si presenta come un “predicato senza soggetto”, ossia avanza una critica che indica gli schiavi ma non i padroni. Chi sarebbero questi ultimi: il mercato?, lo stato?, gli gnomi svizzeri? la moderna società per azioni? Tutto ciò è vero fin quando l’industria culturale, o per tornare al nostro tema, l’egemonia più o meno sottoculturale, si presenta con le sembianze di una “ideologia anonima” (altra nozione di Barthes) come quella della piccola borghesia indagata dall’autore di Miti d’oggi. Ma tutta la problematica cambia assolutamente prospettiva nel caso in cui abbiamo la certezza che un padrone c’è, che è visibile, che assolda manipoli di persuasori invisibili, più o meno occulti nel senso indicato da Vance Packard, che scientificamente promuove oggetti culturali allo scopo di indirizzare, sedare, aizzare ecc le masse. È in questo senso che il libro di Panarari coglie nel segno, perché indica il preciso passaggio o momento storico in cui l’ideologia anonima ha trovato un volto e una precisa strategia non solo e non più estetica, ma etica, politica e per certi aspetti anche religiosa. Fatto inedito a livello mondiale: la cronaca e il supplizio dei giorni nostri però.
P.s. Per dare l’idea del contesto assolutamente folle, ma anche sottile e raffinato, in cui si determia oggi l’egemonia sottoculturale in Italia, debbo affrettarmi a sottolineare il fatto che Panarari pubblica queste sue analisi presso la casa editrice di proprietà del principale “puparo” della gestione egemonica della sottocultura popolare. Taglio corto e dico che nelle vesti di Panarari non mi comporterei diversamente, ma il fatto va sottolineato ugualmente non foss’altro per inquadrare in tutta la sua complessità la tematica che abbiamo tra le mani. Aggiungo che la presunta liberalità di concedere che nella propria casa editrice si possa fare dell’elegante fronda culturale, è l’ennesima dimostrazione, seppur e contrario che esiste una sapiente egemonia. Insomma ci si concede il lusso anche della contestazione interna (destinata dopotutto ai venticinque lettori colti che cedono alla conspicuous consumptiondell’acquisto del bene voluttuario libro) sapendo benissimo che gli incolti, la stragrande maggioranza, quelli che contano di più, sono al sicuro e totalmente amministrati da Alfonsina la Pazza (come Dagospia chiama Alfonso Signorini).
(10 gennaio 2011)
* Il primo è il protagonista del celebre Controcorrente di Huysmans. Lo cito perché non ho avuto la sua sprezzatura da dandy. Infatti Des Esseintes, accintosi a partire per l’Inghilterra e giunto al porto di Calais, si sofferma, in attesa che la nave faccia le operazioni di carico, a flanellare fra le bancarelle dei bouquinistes, dove scopre delle stampe di Londra. Vistele decide che non era più necessario partire per Londra e riuncia al viaggio. Vivant Denon, cui ho dedicato una pagina web è l’autore del Voyage dans la Basse et la Haute Égypte, praticamente l’iniziatore, insieme a Champollion del mito dell’ Egitto e dell’egittologia moderna. (Questo testo è stato scritto prima della rivolta ancora in scena in questi momenti in Egitto)