Mi di-verto
Devèrtere, cambiare
direzione per non essere
diretta, per andare altrove.
Mi diverte mi diverte scrivere
e pensare in parole scritte.
O vita fatta di parole!
Dette molte e più ancora pensate
scritte molte di meno, ma divertenti.
Via di qua, via!
Di là di là, andare
aldilà, ché scrivere
è sempre un poco
come morire: morire
al mondo e rinascere
d’un’altra vita
quasi più vita della vita vera
meno veloce e passeggera
votata forse all’eternità.
*
Sentire come
Sentire come
ma non proprio come
o non del tutto almeno
ma sempre troppo tuttavia
fosse già stato detto tutto
e tutto detto per niente
senza scopo senza costrutto
sentirsi prossimi al disastro
alla fine/oltre la fine addirittura
errori orrori calcoli sbagliati
fiducie cieche scialacquate
intorno confinati ciechi
al fondo di una storia
sconnessa densa di vuoti
riempiti di lordura
sentirsi del tutto abbandonati
cannibali di noi su una medusa
lupi tra i lupi nutriti
alla greppia della volgarità
sentirsi slabbrati sfasati
sfaldati aggrovigliati
incisi da controsensi assediati
dai fatti noi fatti di morte
quale via quale sorte?
*
Prima del grande salto
Prima del grande salto,
da qui a là, da questo posto
rappreso in grumi di senso
spietati e disinvolti in cui sono finita,
tu fa’ che io incontri
gente univoca,
da consultare come un manuale.
Fa’ che prima del dissolvimento
io possa guardare dentro i corpi, ché già ora
dentro le menti non voglio più guardare
(nelle viscere, non altrove, sta forse
la risposta) . Negli anfratti
e nelle cavità dei corpi avrò visto
la lunga distesa dei liquidi schietti,
i sentieri dei nervi che non possono ingannare
e corpuscoli fluttuanti nel fremito del respiro.
Ricorderò di non guardare verso l’alto
traendomi dal gruppo rinserrato:
una leggera contrazione, uno strappo
dispersa nel vento come vapore
da un prato autunnale.
*
P.L.
Persino un topo,
un comune topo
dal pelo marroncino,
sembrava bello
(e un topo è pur sempre un topo
e un topo e un topo)
affiorante da sotto un masso
all’improvviso, sì come suole,
così, un topo, da collasso,
se sbuca da un tombino
tra queste case grigie senza senso;
persino il topo e il passero smagato
(l’uccellino sopra il masso, sotto, il topo)
erano belli di contro a un fondo di fior’, frondi,
herbe, ombre, antri, onde, aure soavi.
Giorni chiari festevoli amorosi
il senso di tutto nei sensi
nel tono della voce
nella materia profonda
delle parole con cui mi chi-amavi.
*
Alla deriva
aggrappati a tutto
con debolezza e disinganno
pur di cambiare
la massa insensata
degli eventi
ci hanno costruito così
i nostri padri
ma i lembi friabili
sui quali mani irrequiete
e compassionevoli si graffiano
si staccano uno ad uno
cadono nel vuoto
noi con loro arenati
nel buio da dove
anche se una voce
si leva nessuno
l’ ascolta.
*
C’è stato un tempo
Sono arrivata ad un punto
che faccio prima
a contare le cose
che ancora mi parlano:
le altre che ho amato
sono troppe a contarle,
anche solo una lacrima
ciascuna potrei riempire
un catino: se dicessi un mare
mi darebbero sulla voce:
così dico catino e penso mare.
*
Nella più totale estraneità
Mi complico la vita
in minuti interminabili
che ordiscono ore
e giorni slavati
inconsistenti e sciapi
io e il tempo andiamo
sfasati e paralleli
io rallento e lui corre di più
lui aggiusta facce e cose e situazioni
io le sfascio le abbandono le dimentico
non sono adatta a tener libri mastri
mi può imbrogliare anche un bambino
io e il tempo
e forse il mondo
ci respiriamo accanto
nella più completa
assoluta estraneità.
*
Finestre
Il gatto sul davanzale al sesto piano
potrebbe cadere
l’albero mezzo disseccato
spiove sui fili
lo taglieranno io credo
la vecchia sempre più vecchia
al mezzanino quasi non esce più
sola continua a buttare
briciole ai colombi e ai merli
che imbrattano i cortili
il trambusto alle ore sbagliate
del bambino bengalese
il sussulto all’abbaiare del cane
il signore che sempre sempre
dopo pranzo starnutisce mezz’ora
gente che non conosco
animali di terracotta
vinco l’angoscia perpetua
guardando il mondo di fuori
nel riquadro in cui appaio
da una stanza oscurata
mi si può immaginare
per sbrigativa opinione
quella del quarto piano
forse un po’ matta.
*
Vorrei tornare a casa
Acquitrini pantani
tripudio di rovesci
temporaleschi
contro una luce abissale
filari di alberi spettrali
sentinelle al mio passaggio
incroci lampeggianti
illuminano un verdegiallo
di palude
grigio e nero che s’allontana
deforma la prospettiva
la torce la spiana l’accartoccia
ho pinne ho branchie
ho una calotta di guscio
vuoto attraverso vi passa
la fuliggine che esala dal fango
i gelsomini e gli oleandri
pendono da forche insanguinate
non un grido passa nel cielo
devastato
era la mia casa
azzurra e verde.
Una terra inospitale
mi attende.
*
Imperfetta
Sono rimasta a letto
mentre fuori infuriava
la tempesta
neve e grandine e vento
tregenda di nubi bluastre
come all’improvviso
certe sere d’estate.
Pensavo alle rose lassù
le vedevo tremare
a ridosso del sottotetto
mi dicevo resisteranno
non voleranno via
sentendo d’essere quasi
una madre indegna
come talora sono
quando non dico
la parola che attendi
lo sguardo azzurro e attento
quando amandoti tanto
mi trattengo al di qua
dei tuoi freschi pensieri.
*
La pigrizia dei tempi
Abbiamo sperato a lungo un tempo
che non tutto finisse con la morte
ci abbiamo creduto così tanto,
bambini in riva al mare
con secchiello e paletta
a riempire fossati immaginari
d’acqua infinita, castelli e torri
alte svettanti sopra nugoli
di moscerini e frotte
di madri allarmate.
La luna soverchia gocciolante
l’albero a cui tendevi,
una forza inarrestabile declina
il vento caldo dell’estate
nella fuliggine di novembre,
nitida, nell’angoscia del meriggio,
l’intera produzione di un ventennio
dentro un guscio vuoto di cicala;
ci sferza il tempo e grave rimbalza,
mentre assonnati giriamo a vuoto
gli sguardi, emettiamo mugolìi
di stupida intesa – tesi i molti muscoli
flaccido il poco cervello – riarsi
come quest’arida pietra del Carso
che pare un richiamo d’altri tempi,
come il cuore della terra che senti
ridere e scoppiare di vita
altrove.