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Luigi Cannone: giungere alla poesia semplice

Da Narcyso

Luigi Cannone: giungere alla poesia semplice
Sappiamo come Rilke nella nona Elegia Duinese abbia risolto poeticamente lo scandalo dell'Essere giungendo a una sostanziale accettazione delle espressioni della vita: "Vedi, io vivo. Di che? Né infanzia né futuro / vengono meno... Innumerevole esistenza / mi si sprigiona nel cuore"; la verità non è mai semplice, se non nella sua espressione riassuntiva - non risolutiva - che in sé raccoglie tutti i passaggi e faticosamente li assolve.

Luigi Cannone, in questo libro, cita ad esergo proprio Rilke, dimostrando che, prima di giungere alla sua poesia "semplice", egli ha coltivato un percorso di esperienze silenziose, di attenzione e meditazione - non dichiarazioni - intorno al gesto nudo della parola.

E sono parole, a me sembra, assai vicine al pragmatismo di certa mistica orientale, capace di coniugare riflessione e distacco con la necessità di accogliere le infinite forme della vita; come, per esempio, certo buddismo zen trasforma la meditazione in gesto - e il gesto si fa, esso stesso, meditazione.

La poesia di Luigi Cannone sembra dunque interessata a proporsi come una forma di preghiera, non inno di ringraziamento per il miracolo dell'accadere ma resa totale al mistero che si squaderna davanti a noi con tutto il suo carico di gioia e di dolore.

Ecco allora ridotto il carico delle parole, delle macro situazioni della vita; le distanze si accorciano e il viaggio è praticabile dietro le porte della casa, nel cortile, a giocare con i figli, nella gita fuori porta a vedere il fiume, i monti. Ogni mistero è vicino a noi: aspettando a una stazione, osservando il movimento delle nuvole, nello sfacelo della foglia caduta, nell'attesa della pioggia, nella percezione delle micropulsazioni che ci attraversano nei corsi e ricorsi della nostra vita.

Questa poesia, allora, non può che essere poesia dell'io, e qui mi preme ribadire una netta distinzione con l'entità che all'io si affratella, e cioè il suo volto nevrotico avviluppato su se stesso: l'ego. L'io appartiene alla specie, alla razza degli uomini, può coincidere con un noi e parlare a nome di tutti, mentre l'ego è il volto nefasto del Narciso che annega nella sua stessa acqua amniotica. L'io è, diversamente, il mondo stesso che prende coscienza di sé, di sé negli altri che, attraverso uno specchio, appunto, lo riconoscono.

La poesia di Luigi Cannone, nella forma di un casto e sincero lirismo, mette in atto un riconoscimento, non negli accadimenti del diario domestico ma nel grande libro del mondo dove tutte le storie delle creature possono incontrarsi e comprendersi. È proprio questo movimento verso gli altri la causa dell'accadere. Non è nostalgia delle cose perdute, male del ritorno alla casa, nostos, perché la nostra casa è questo abitare il tempo, nella misura che ora ci è concessa.

È proprio questa forza disperata a resistere, ad arrendersi che smuove la parola, la stacca da noi stessi e l'avvicina alle cose mute che per questo dono, improvvisamente ci parlano.

Sebastiano Aglieco LEGGI ANCHE QUI IL LIBRO PRECEDENTE

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