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Luigi Paraboschi - E ci indossiamo stropicciati

Da Ellisse

Luigi PLuigi Paraboschi - E ci indossiamo stropicciatiaraboschi è uno dei partecipanti al concorso "Opera Prima" 2014, che si è concluso qualche settimana fa e del quale ho parlato QUI. Non ha vinto e con ogni probabilità non può essere annoverato tra i migliori, ma in lui, come in altri della novantina e passa dei concorrenti, mi sembrava di aver intravisto qualcosa. Forse, col senno di poi, anche troppo. Come si sa, i concorsi letterari sono il trionfo del relativismo, per forza di cose. Vince chi, in relazione agli altri, appare il migliore. Raramente è avvenuto che una giuria non assegnasse il premio a nessuno. In effetti la silloge di Paraboschi "E ci indossiamo stropicciati", soprattutto se confrontata con una massa di versi altrui inutili e defatiganti, presenta innanzitutto il merito di una scrittura che, verso dopo verso, conduce ad un esito, a una conclusione. L'orizzonte di Paraboschi è molto domestico, personale, spesso limitato a una natura dai confini prossimi, quasi un hortus conclusus, e talvolta simbolica. Qualcosa che si può osservare dalla finestra, attraverso i vetri, e forse con una malinconia distratta, mentre si pensa ad altro, la mente va altrove. E' da lì che partono considerazioni che riguardano un intimo che però insieme è collettivo, espresso spesso in forme verbali plurali o con un tu che è plausibile ipotizzare che sia anch'esso in qualche modo "plurale". La forma complessiva è quella di un verso lungo che dà agio di sviluppare un pensiero ipotattico, di una certa ampiezza strutturale, che somiglia molto a soliloqui espressi e "preparati" in solitudine, come una lettera che si scrive e che forse si decide di non spedire. Una scrittura che, pur venata a tratti di qualche patetismo, è espressa per lo più con un linguaggio "naturale", o tradizionale se preferite, fatto più per dire che per suggerire, una poesia che non si intravede ma si legge. L'andamento della scrittura è spesso quello di uno sguardo che va da "fuori" a "dentro", dall'orizzonte di cui si diceva alla considerazione di sé e del proprio sentire, in maniera vagamente connotata. C'è una piccola o grande ricerca di identità, di un equilibrio, anche nei versi, di capire di quali "abiti" vestirsi. Se c'è un altro, o un'altra, la comunicazioone con lui/lei è alla distanza, lasciando qualche verso sugli scalini di casa. C'è un senso di rinuncia, di dismissione del desiderio, del tempo che scorre e si conclude come sul finire di un'estate indiana o di San Martino della vita. Forse niente di nuovo, certo, ma detto bene. E certamente il tono di fondo è quello melancolico-lirico, se c'è un dolore è come già elaborato, metabolizzato in una quiete inquieta persistente, e la conclusione che trae filosoficamente l'autore è quella della impossibilità di "stirare" la vita che ci stropiccia. Ne prende atto, per così dire. Inutile arrabbiarsi, rovesciare la scrittura come un tavolo, rigare il verso con parole acuminate. Per Paraboschi è questa la poesia possibile. (g.c.)

Mi rimarrà il tempo
per misurare il tonfo
delle parole tronche,
d'udire il rumore dei passi
che s'allontanano nei corridoi,
di pesare dentro il palmo
una manciata di sorrisi definitivi ?
Dire non ho più fretta,
ho un'ora per ricoprire con la carta
il sussidiario della tua scuola,
per annodarti le stringhe delle scarpe
ed evitarti ogni caduta,
smettere di pedalare dentro la vita
come durante un E.C.G. sotto lo sforzo ?
Eppure ne avanzeremo, lo lasceremo
a chi è rimasto, così potrà rileggere
ogni nostra parola guardando
infine il suo orizzonte senza angoscia,
ma ne resterà a sufficienza per espiare
il male senza doverci guadagnare
l'indulgenza sopra una scala troppo laica ?
***
Ho lasciato sopra gli scalini di casa tua
quattro versi sciolti nel poco miele che restava
della mia estate di san Martino, come
l'obolo della vedova, il tesoro tenuto in grembo
frutto di rinunce e non ciò che le esuberava .
Conservali per quei momenti in cui s'affaccerà
alla tua finestra un velo di rimpianto,
non rileggerli con distacco, sono il prezzo
che anche tu paghi all'illusione che ci fa sperare
al di là del suono dolente delle campane.
Invece io ripeto gesti ed azioni collaudate,
intono vecchie litanie, mugugno cori muti
di paturnie, ma tutto avverrà com'è giusto sia,
il sole completerà il suo giro, l'asse della terra
non subirà inclinazioni, ed il gelo sopra i fili
del nostro bucato non si scioglierà perché
è senza luce questo giorno d'inverno
che altri hanno già battezzato dello scontento.
Ne passeranno ancora come questo,con pause
brevi come quelle dei tuoi pasti, e se qualcosa
s'avanzerà dentro il piatto diremo con disinvoltura
di non avere fame, e così tutto sarà più facile,
ci basterà dimenticare di non avere vissuto.
***
Trapassa anche te il malessere
della non appartenenza come se
viaggiassi dietro vetri oscuri ?
E al risveglio ti succede
d'indossare abiti non tuoi,
indumenti che coprono le debolezze
e fanno vergognare dei pensieri ?
Oppure ti sembra che la vita
talvolta sia un fiato tronco,
e cerchi il respiro del giorno
dentro gli occhi di chi incontri ?
Portiamo addosso squame congelate da troppi inverni d'astinenza,
lasciamo tracce di morte mascherata
da vitalità lanciando l'illusione
d'essere gli anelli forti d'una catena, ma la secchia che gettiamo in fondo
al pozzo non porta su che fanghiglia e sassi.
Il malessere che trastulliamo come fosse un capogiro non è un calo di pressione
per il quale può bastare una zolletta,
ora che il fumo dei vulcani s'è allontanato
resta questo ansimare persistente che qualcuno
- con ironia - ritiene tosse cardiopatica.
***
Non cerchi più il pulsare che batte i polsi
e la voglia che inumidisce il labbro,
ti serve solamente un tronco scorticato
per appoggiarvi il peso delle spalle,
in fondo ad un campo un po' in discesa
e una finestra con i vetri chiusi da cui scrutare
chi risale il declivio d'un orto non diserbato
e poi attendere che il ghiaccio nella gronda
diventi acqua per la secchia, interrare
qualche seme e dare un nome nuovo al fiore.
Ma dici “ qui piove ”, quasi per troncare un discorso
che t'infastidisce. Ne prendo nota con rassegnazione,
non è diverso il mio giorno anche se fuori brilla il sole.
Sempre chiusi rimaniamo dentro quegli spazi
che sono privatamente nostri e che non vogliamo aprire,
come un armadio in cui si accumula la biancheria
lavata ma non stirata, e solo all'occorrenza
si prende a caso ciò che serve e poi s'indossa
quello che richiede l'occasione, ma
la nostra scorta di chiusure è così grande
che non basta la buona volontà per fare di noi
esseri nuovi, e alla fine ci indossiamo stropicciati.
***
Dentro vetri appannati inseguo
una figura nel sogno di coppie
frettolose che fuggono da un vento
che rovescia gli ombrelli e le gonne.
Le foglie oscillano sopra un grigio
scivolato nel buio, e cerco
risposte nel rivolo d’acqua
distratta che cola dal vetro
si spezza e si perde, si fa
riga interrotta di vita che avvolge
bisbigli e sussurri, voci smorzate
e parole consuete, sorrisi macerati.
Mi resta la devozione d’un pellegrino
alla scala santa e la luce d’un cerino
per una notte di dismissioni,
una fiamma breve, per illuminare
i desideri - cicale nell'estate indiana -
e, chiusa nelle cocche d’un fazzoletto
a quadri rossi,l'eco accentata di una voce
che ha la fragilità di un ramo secco.
foto: "Solitario" di Paride De Carlo, da Flickr - CCL/BY-NC-ND

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