In un Teatro Sociale di Luino gremito di tanti studenti, Salvatore Borsellino ha percorso, in un’emozionante conferenza, la vita ed il lavoro del fratello, Paolo Borsellino, magistrato assassinato dalla mafia nella strage di via D’Amelio, il 19 luglio 1992. I ragazzi del Liceo Scientifico “V. Sereni” di Luino e dell’I.S.I.S. “C. Volontè” hanno seguito per quasi due ore attentamente, in silenzio e con rispetto, le parole ed il racconto del fratello di uno tra i magistrati che hanno contrastato la mafia da protagonisti, rimanendo vittime di attentati proprio per il loro “modus operandi” incorruttibile. Si fa riferimento a icone della legalità come Peppino Impastato, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e molti altri.
Il ricordo di Salvatore Borsellino su Paolo. Ad introdurre Salvatore Borsellino, fratello del compianto magistrato Paolo, sono stati il presidente della Commissione Biblioteca del Comune di Luino, il professor Emilio Rossi, e l’assessore al Territorio, Alessandra Miglio. Dopo i saluti di rito agli studenti delle scuole luinesi, e dopo la visione di un breve filmato riguardante Paolo Borsellino, a salire sul palco è proprio Salvatore Borsellino. Il racconto è toccante, soprattutto per il silenzio ed il rispetto che gli studenti regalano ad un ospite così rilevante. I ragazzi presenti al Teatro Sociale di Luino il giorno della strage di via D’Amelio, quel fatidico 19 luglio 1992, ancora non erano nati. Salvatore è un fiume in piena e trasmette ai ragazzi il vivido ricordo che ha del fratello: il rapporto-non rapporto, le ultime telefonate, il suo lavoro, la storia del pool antimafia di Palermo, la mafia, gli attentati, le morti, la mancanza dello stato, la storia del giudice della prima sezione della Corte della Cassazione, l’ammazza-sentenze Carnevale, ed anche, non da ultimo, del suo impegno dopo la morte del magistrato tra i ragazzi e nelle scuole. “Dopo la morte di Paolo, il giorno dopo – spiega Salvatore -, ricordo che mia mamma prese me e mia sorella (ndr, Rita) e ci disse che dovevamo portare avanti il ‘sogno di Paolo’. Lui credeva nelle nuove generazioni e credeva che insieme al contrastare la mafia politicamente e giuridicamente, bisognava creare un senso civico, una cultura della legalità”. Salvatore ha affrontato anche le questioni spinose della trattativa Stato-Mafia, del lavoro del magistrato Nino di Matteo, e dell’Agenda Rossa, dove Paolo appuntava qualsiasi cosa sulle indagini che stava compiendo, dopo l’attentato di Capaci che ha coinvolto ed ucciso il giudice “fratello” Giovanni Falcone, morto insieme alla moglie Francesca Morvillo e a tre agenti della scorta: Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
La strage di via D’Amelio e la mancanza dello Stato. Paolo Borsellino, dopo la morte di Giovanni Falcone (ndr, 23 maggio 1992), si vide aumentare le misure di sicurezza e le restrizioni per la sua protezione, che avevano raggiunto l’apice. Anche nel corso di quella domenica, il 19 luglio 1992, quando arrivò a casa della madre perché avrebbe dovuto accompagnarla a fare una visita da un suo amico cardiologo. Era giunto insieme agli uomini della sua scorta in via D’Amelio, pochi minuti prima. Quando si avvicinò a suonare il citofono erano le ore 16.58. Fu proprio in quel momento che la città di Palermo si fermò e trattenne il respiro: il boato che investì via D’Amelio, non solo colpì, uccidendo, Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Eddie Walter Cosina, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli, ma colpì un’intera regione. L’Italia. Tutti quegli italiani che credevano nel lavoro del pool antimafia di Falcone e Borsellino, che avevano dato avvio al maxi-processo. Sì, si trattava della maggior parte degli italiani. Quei cittadini, infatti, erano stati colpiti dall’esplosivo contenuto nel bagagliaio della Fiat 126, fatta scoppiare a pochi metri dal cancello del palazzo in cui abitava la madre del magistrato. In Falcone e Borsellino la maggioranza del popolo italiano confidava, sperava e combatteva, convinta che insieme a loro quel cancro che ancor oggi affligge l’Italia, la mafia, sarebbe potuta davvero sparire per sempre. “Paolo sapeva benissimo che era stato condannato a morte. Lo capii anche io quando morì Giovanni Falcone – spiega Salvatore Borsellino -. Nonostante questo lui continuava ad impegnarsi, guardando la morte negli occhi, convinto che sarebbe arrivata. Ma non lo faceva con coraggio, lo ha sempre fatto con amore. Era quello che spingeva loro nella passione che nutrivano per il loro lavoro. Lo Stato, invece, in quegli anni li aveva abbandonati. Completamente. Aveva abbandonato quattro regioni e, con esse, anche quegli uomini che lottavano ogni giorno per sradicare la mafia in Sicilia ed in tutta Italia. Lo Stato avrebbe potuto fare molto di più ed invece mancò totalmente. La politica è complice della strage di via D’Amelio, da Palermo a Roma. Via D’Amelio è una via grande, ma occupata interamente da automobili. Per uscire bisognava fare retromarcia, non era semplice gestire la viabilità. Si sarebbe potuto agire in altro modo, mettere dei divieti di sosta, almeno che impedissero alle automobili e soprattutto a quella Fiat 126 di trovarsi in quel luogo. Ovviamente non fu solo quello, erano tante le lacune della politica nei confronti del lavoro di Paolo, di Giovanni e di tutto il pool antimafia. Ricordo, poi, di aver parlato con un poliziotto giunto sul luogo della strage dopo solo 2 ore. Mi disse che solo Paolo non era stato fatto a pezzi dall’esplosione; l’agente mi raccontò di aver visto, sull’intonaco del palazzo di nostra madre, i capelli e alcuni pezzi di corpo di Emanuela Loi, la ragazza della scorta di Paolo rimasta vittima con lui”.
Uno sguardo al futuro, in riferimento al passato di Salvatore, ed il compito delle nuove generazioni. “Io ho fatto una scelta completamente diversa da Paolo – spiega Salvatore Borsellino -. Una volta laureatomi in ingegneria, mi trasferii con mia moglie ad Arese. Vivo qui da 45 anni. Credevo fosse la scelta giusta, non pensavo potessero arrivare a tanto. Ad uccidere Giovanni Falcone e mio fratello, ma anche tanti altri. Quando vivevo a Palermo quotidianamente vedevo rivoli di sangue, sotto lenzuola bianche, che coprivano i morti ammazzati dalla mafia. Hanno distrutto un ambiente, io non riuscivo più a vivere così. Per questa ragione siamo fuggiti. E’ stato uno degli errori che ho fatto nella mia vita, me ne sono accorto dopo. Un altro sbaglio è stato quello di aver perso la speranza, per dieci anni, dopo esser andato dal 1992 al 1997 in tantissime scuole italiane a parlare di legalità e del lavoro di Paolo. La mia speranza era morta, non ero degno di farmi carico delle parole di Paolo. Così sono stato in silenzio fino al 2007, quando ho capito che la mia rabbia doveva trasformarsi nuovamente e continuare a combattere per tutto quello che aveva portato alla morte di mio fratello. E così eccomi qui, davanti a voi (ndr, rivolgendosi agli studenti). Ora la mafia si è globalizzata, è ovunque. Ma qui la penetrazione è stata più subdola, non si vede. E’ fatta di capitali da investire, di riciclaggio di denaro che viene immesso nell’economia sana. I mafiosi hanno un’enorme capitale da investire per corrompere le persone. Con la crisi economica, poi, a causa della mancanza di prestiti da parte della banche, le mafie hanno potuto fare affari. Nonostante tutto questo, però, io sono ottimista. Lo sarò sempre. Guardando negli occhi ragazzi come voi non posso fare a meno di esserlo. ‘La lotta alla mafia – ricordando una frase di Paolo – non deve essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolga tutti, che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà, che si contrappone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità‘”.