Luna bugiarda, di Ben Pastor
Creato il 05 febbraio 2015 da Funicelli
Incipit:
«Si
deve far coraggio, maggiore…».
Martin
Bora soffriva troppo per dire che capiva.
«Dobbiamo
pulire le ferite».
Soffriva
troppo per dire che aveva capito anche questo. Coraggio. Pulire le
ferite. Il sangue gli pulsava nelle palpebre, con guizzi veloci nel
bagliore cieco degli occhi sbarrati. In fondo alla bocca, dove i
denti si serravano, un’altra pulsazione gli scandiva il tempo,
dolorosamente,
fin
dentro la testa.
«Coraggio,
coraggio. Si deve far coraggio…».
Un
piccolo grumo di saliva si andava formando sotto la lingua, finché
dovette inghiottirlo. Il sollevamento della barella aumentò talmente
il dolore al suo braccio sinistro che un brivido gli percorse il
corpo intero. Tutto quello che riuscì a raccogliere fu un breve
respiro convulso alla sommità del petto, come se dovesse piangere, o
gridare. Lo stavano adagiando sul tavolo della stanza del Pronto
Soccorso. Gli toglievano gli stivali. La gamba sinistra sembrò
lacerarsi con la rimozione del cuoio della calzatura, come se gli
stessero strappando l’osso dal ginocchio. Una serie di luci esplose
su di lui, voci umane giungevano da lontano verso di lui, contro di
lui,
dentro
di lui. Il sangue schizzò mentre gli infermieri, tagliando e
scavando, si facevano strada nell’impasto di terra e materia
organica che un tempo era stata la sua divisa. Lungi dal cedere, Bora
si irrigidì con una risolutezza disperata, cercando di resistere al
dolore. Di combatterlo, come
se
si fosse potuto combattere, quando l’intero lato sinistro del suo
corpo sembrava prigioniero in una morsa gigantesca e non c’era
speranza di tirarsene fuori senza lasciarci il braccio e la gamba
insieme. La mano sinistra, già lacerata in filamenti, con il sangue
che zampillava, sembrava inghiottire e sputare fuori la vita stessa.
Polmoni,
stomaco, ossa, tutto quello che gli aveva riempito il corpo finora,
pareva voler dilagare dal braccio parzialmente reciso in una
poltiglia rossa, rivoltante.
Gli
stavano slacciando i pantaloni della divisa. Mani ansiose gli
frugarono la peluria insanguinata dell’inguine, tastarono la coscia
e il ginocchio. Il collo gli si inarcò, rigido, nello sforzo della
schiena per sollevarsi.
«Lo
tenga giù, lo tenga giù!»
esclamò una voce. «Deve
tenerlo
giù, infermiera!».
Le
articolazioni bloccate come in una presa, Bora lottava contro il
dolore, non contro l’immobilità a cui era costretto. Non riusciva
a inghiottire, né riusciva a dire che non poteva inghiottire; e
quando qualcuno gli diede dell’acqua – sapeva che stava aprendo
la bocca, perché il respiro gli usciva a spasmi – questa gli
ritornò su gorgogliando dalla gola lungo i lati del viso.
Avrebbero
lavorato sul suo braccio sinistro: si irrigidì nell’attesa, e
tuttavia un parossismo di dolore gli spalancò a forza le labbra; fu
scosso da un tremito convulso, eppure non urlò. Cercò tastoni il
bordo del tavolo, e non urlò. Il collo piegato all’indietro,
incapace di chiudere la bocca (era così difficile, difficile!),
lottò e sbatté la testa contro la superficie, e non urlò.
«Gli
metta qualcosa sotto la testa, infermiera, la sta battendo
sul
tavolo!».
Le
mani che scavavano nella carne del braccio, dell’inguine e della
coscia accelerarono e poi si fermarono. Quindi incominciarono di
nuovo, lentamente. Lentamente. Scavare, tirare, spaccarsi. Nascere
doveva essere così, una lotta impotente e nauseabonda per uscire
nell’odore pervasivo del sangue, un odore di macelleria, lancinante
ed estremo. Si sarebbe sfracellato. Se si faceva strada spingendo, si
sarebbe sfracellato in carne abortita, e sarebbe morto se non lo
avesse fatto.
«Lo
tenga giù!».
Poi
qualcuno staccò a forza la sua mano destra dal bordo del tavolo e la
tenne stretta.
Bora
avrebbe potuto piangere per il conforto che gli veniva da quella
stretta, come se l’atto fosse un aiuto a nascere dalla morte, a
essere espulso dalla mandibola e dal ventre della morte stessa. Smise
di lottare, e all’improvviso stava uscendo dalla morsa.
Le
luci lo accecavano, vedeva il sangue che copriva il suo corpo disteso
e sagome indistinte che lavoravano nella nuda coperta rossa con
strumenti luccicanti, tamponi di cotone.
Fuori,
fuori. Stava venendo fuori.
La
presa lo trascinò sulla soglia dell’agonia, lo fece uscire e il
dolore era estremo, insopportabile nel passaggio.
Bora
gridò solo una volta, quando la nascita dal dolore coincise con
l’eliminazione di quello che restava della sua mano sinistra.
Mi sono riletto, ancora una volta senza
riuscire ad interrompere la lettura, il secondo libro della
scrittrice italo americana Ben Pastor, “Luna bugiarda”:
secondo in termini di pubblicazione, ma primo tra quelli ambientati
in Italia con protagonista l'ufficiale dell'esercito tedesco Martin
Bora.
Che qui troviamo, nell'autunno del
1943, a dar la caccia ai partigiani (o banditi) nell'Italia
settentrionale, nella zona di Verona.
Ufficiale dell'esercito distaccato
presso i servizi segreti dell'ammiraglio Canaris, l'Abwher:
Martin Bora proviene da una famiglia della Sassonia, con un padre
naturale direttore d'orchestra e un patrigno generale dell'esercito.
Di formazione classica, con studi filosofici alle spalle, anche per i
viaggi a Roma da adolescente.
Un tedesco di stampo prussiano (quel
von davanti il cognome), con una cultura latina alle spalle e anche
sangue scozzese nelle vene, per parte di madre.
Tutto questo è Martin Bora,
Martin-Heinz Douglas Freiherr von Bora:
un personaggio complesso, difficile da definire in poche parole,
silenzioso e solitario, enigmatico come una sfinge.
Nell'avanti e
indietro nel tempo, la sua autrice ce l'ha fatto conoscere nella
guerra non dichiarata di Spagna e nell'invasione della Polonia. Dove
ha assistito di persona alle rappresaglie contro la popolazione
civile e ai massacri nei confronti della popolazione ebrea. Le sue
denunce, finite di fronte al Tribunale dei crimini di guerra non
l'hanno messo di buon occhio di fronte alle SS.
Di ritorno dalla
campagna di Russia, scampato all'accerchiamento di Stalingrado
assieme al suo reparto, conquistati i gradi di maggiore, lo troviamo
in Italia, nella Repubblica di Salò a dar la caccia ai
partigiani.
Qui viene fatto
bersaglio di un attentato, da parte di uno di questi gruppi, in cui
rimane mutilato della mano sinistra. Una ferita che non è solo
esteriore, la perdita della mano, il doversi abituare a fare tutto
con una mano sola, le schegge nel ginocchio.
È
una ferita anche interiore, che acuisce la sofferenza che ha provato
in tutti i campi di battaglia (in cui è sempre stato volontario, per
questo suo spirito guerriero), per la lontananza dall'amata moglie
Dikta e dalla famiglia.
Una sofferenza che
Bora affronta con un suo consueto stoicismo, che lo porta perfino a
rischiare la pelle per il suo non volersi risparmiare alcuna fatica.
Ancora dolorante
per le ferite, Bora si trova coinvolto, dalla milizia fascista, in
caso di presunto omicidio: il potente gerarca Vittorio Lisi, da tempo
costretto sulla sedia a rotelle, è stato investito e ucciso nella
sua villa di campagna.
Principale
sospettata, la moglie Clara: il gerarca, prima di morire, ha
tracciato sulla ghiaia una «C». C come Clara Lisi, la moglie. La
cui macchina ha pure il paraurti ammaccato.
I vertici del
partito fascista affidano l'inchiesta al tedesco, confidando nelle
sue doti investigative e anche nella sua capacità di tener celati
alla stampa i dettagli della morte.
Notoriamente, ai
tempi del fascismo erano spariti dalla cronaca omicidi e suicidi.
Bora affianca
nell'indagine l'ispettore Guidi, un giovane funzionario che non crede
alla colpevolezza della donna, anche per motivi personali:
“si sentiva
inquieto, sulla difensiva, perché Bora tendeva a scrutare il suo
prossimo ma rivelava ben poco di se stesso.”
Guidi e Bora,
seppure coetanei, sono all'opposto come carattere e formazione: tanto
freddo e distaccato (almeno all'apparenza) il tedesco, quanto
impulsivo e disposto a lasciarsi coinvolgere dal caso l'italiano. Che
pure subisce il fascino della vedova che si dichiara innocente.
Ma è una coppia
di investigatori che funziona (e che lavorerà assieme anche nei mesi
successivi a Roma)
: mettendo il naso nelle carte del morto, scoprono alcuni altarini
sul suo conto. Prima di tutto era uno che, pur nella sua condizione,
dava la caccia a tutte le sottane in circolazione.
Durante il
funerale di Lisi, spunta una prima moglie, che questi avrebbe sposato
prima della guerra in forma civile. Escono fuori altre storie di
aborti procurati a ragazze che aveva messo incinta.
E tanti soldi, di
cui Bora e Guidi non riescono a capire la provenienza.
Nonostante la
diffidenza dei fascisti, l'inchiesta arriverà alla fine, portando
alla scoperta dell'assassino e al movente dell'omicidio.
Qui entrerà in
ballo la luna che da il titolo alla storia (la luna avrà un ruolo
importante in questo romanzo):
“Era la
stessa luna chiara e impassibile che aveva visto dal balcone
dell’elegante casa dei suoi genitori a Lipsia e, più tardi, dalla
sconfinata, mortale immensità della pianura russa, così densa di
insidie. Luna bugiarda, pensò. Una luna bugiarda”.
E' un'espressione che deriva da un detto latino “luna mendax”
e che troverà una soluzione per il lettore solo alla fine.
Ma in questo romanzo non c'è solo l'inchiesta su Lisi (che rivela
uno spaccato degli intrighi e delle gelosie interne al partito
fascista).
C'è l'assassino che toglie le scarpe alle sue vittime, a cui Guidi e
i suoi uomini devono dare la caccia. C'è spazio per le riflessioni
amare di Bora sulla guerra e sul suo giuramento di soldato, un
giuramento di fedeltà che non ha sempre rispettato:
“per cinque
dei sette anni in cui aveva prestato servizio, aveva tradito il
proprio giuramento di soldato. E le SS lo sapevano benissimo; per
questo potevano venire a chiedergli di scortare gli ebrei in un campo
di concentramento e aspettarsi che lui rispondesse di sì.”
Come posso, da
soldato, giustificare tutto questo? -
si deve chiedere l'ufficiale tedesco, e lo deve chiedere di fronte ai
deportati, alle torture dei partigiani da parte delle SS, alle
privazioni della popolazione che non ha colpe.
E'
un peso che si aggiunge al fardello cui l'uomo-soldato-filosofo
Martin Bora si deve fare carico: un fardello che, dalla Spagna alla
Russia, coi suoi cieli “sterili”
per quel blu malinconico che aveva lasciato così sgomento Bora.
La scheda del libro sul sito di
Sellerio
Il sito dell'autrice Ben Pastor
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