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LUX IN TENEBRIS LUCET | Il rito e la festa nell’incontro tra la vita e la morte

Creato il 02 aprile 2015 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia
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fuoco_sacro_lux_tenebris_culto_dei_morti_pasqua (2)di Giuseppe Maggiore

 

Mistero imperscrutabile. Tale appariva la natura, e la stessa umana esistenza, all’uomo dell’antichità. I cicli naturali alternavano luce e ombra, vita e morte, agendo attraverso fenomeni indecifrabili; tutto obbediva a questo ciclico ripetersi cui l’uomo non riusciva a sottrarsi. La sua sopravvivenza era, al pari di ogni altra forma di vita esistente, indissolubilmente legata a questi cicli, soggetta alle stesse forze. Forze contro cui era vana ogni lotta, e che perciò andavano interpretate, esorcizzate, talvolta “adulate” per ingraziarsele. Espressione di questo ineludibile rapporto e di un dialogo che si rendeva necessario con questa misteriosa natura, è un sistema di idee e di credenze via via sempre più elaborato e complesso. Un sentimento religioso man mano affiora e prende corpo nell’animo dell’uomo, la sua speculazione intellettiva prende il via cercando di darsi delle risposte, delle spiegazioni su un mondo che andava interpretato; e tutto ciò che appariva incomprensibile ai suoi occhi disvela finalmente significati, rivela cause ed effetti; la natura acquisisce un senso, una fisionomia, anzi tante quante sono le sue forze, i suoi elementi e i fenomeni con i quali si manifesta. Per l’uomo l’informe e tutto ciò che lo inquieta finalmente assume una forma, un significato. Tutto ciò che gli agisce intorno, tutto ciò che avviene sotto i suoi piedi o sopra il suo capo, finanche tutto ciò che si agita nel profondo del suo essere ha un suo perché, una sua correlazione. Questo sentimento religioso investe l’universo entro cui l’uomo – il più solo tra i viventi – si muove; nasce una fede che plasma, reinterpreta, personifica, sacralizza, tutto codifica all’interno di un rito. Tanti riti.

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In principio erano le piante e gli animali; erano i tuoni, la pioggia, la luce e la tenebra. Non c’erano divinità dalle sembianze umane o con nomi propri (quali proiezioni dell’uomo che si poneva al di sopra degli altri esseri) ma spiriti che aleggiavano nell’aria, che albergavano negli animali, nelle piante e nel fuoco, esseri ed elementi perciò ritenuti sacri, e con i quali egli viveva un rapporto simbiotico. Con l’affiorare del sentimento religioso tutto ha una sua connotazione magica, sacra – dai cicli solari e lunari agli eventi atmosferici, dal mondo vegetale a quello animale, dalla vita alla morte – e per ognuno di questi avvenimenti o forme di vita si origina una credenza, un rito, una celebrazione. Gran parte dei riti elaborati dalle varie culture avevano tuttavia in origine più una connotazione magica che religiosa; essi partivano dalla concezione che per riprodurre i grandi fenomeni della natura da cui dipendeva la vita umana fosse necessario imitarli, riprodurli attraverso un insieme di azioni rituali. Il cambio delle stagioni (il Sole, questo astro che dava luce e calore, che scandiva il ritmo delle giornate e di ogni umana attività, che determinava la fruttificazione e i raccolti, ciclicamente sembrava svanire condannando il mondo all’oscurità e alla morte) era tra tutti i fenomeni quello che suscitava maggiore preoccupazione; i due solstizi (quello invernale e quello estivo) rappresentavano perciò momenti topici nel corso dell’anno, caratterizzati da particolari celebrazioni e da riti propiziatori atti a esorcizzare la definitiva scomparsa del Sole. In questi due periodi dell’anno, fin dalla notte dei tempi, l’uomo ha sempre celebrato il “passaggio” espandendone la dimensione puramente cosmica e ampliandone i significati, fino a includervi ogni altra accezione simbolica legata alla vita e alla morte, al conflitto tra il bene e il male.

La festa, scandiva sì, il ciclo dell’anno e quello della vita individuale e collettiva, ma rappresentava innanzitutto un atto di santificazione della vita come della morte, tra i cui stadi si svolgeva l’esistenza dell’uomo e di ogni altra forma vivente, e ciò in una precisa dimensione spazio-temporale. Questi momenti celebrativi costituivano anche l’occasione per spezzare la routine quotidiana, assumendo comportamenti e compiendo azioni inconsuete rispetto alla vita di tutti i giorni. Rituali e cerimonie prevedevano particolari cibi e bevande, l’esecuzione di canti e di danze, un abbigliamento particolare, l’uso di maschere o di travestimenti; spesso avevano un tono liberatorio che prevedeva l’infrazione momentanea di ogni regola e convenzione sociale, o ancora il ribaltamento dei ruoli sia di genere sia di status sociale (comportamenti tesi a ricreare il ritorno a una mitica età dell’oro avulsa da ogni classificazione e differenza sociale). Attraverso il temporaneo rovesciamento, la festa riusciva, pur se su un piano puramente simbolico, a mettere in discussione l’ordine sociale vigente. Grazie al loro perpetuarsi nel tempo, la festa e i suoi riti contribuivano a forgiare l’identità e la coscienza collettiva di un popolo, che in tali occasioni poteva riconoscersi in dei simboli, in delle tradizioni con l’andar del tempo divenuti parte costitutiva della sua stessa storia.

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Il rito rappresenta innanzitutto un medium tra la divinità e l’uomo, ma è anche memoria, commemorazione, è evento che torna a ripetersi sempre uguale a se stesso; certifica la propria appartenenza a un credo, a una fede; rinsalda l’appartenenza a un gruppo sociale, a un popolo e a una nazione. Tale è stato in passato, tale rimane ancor oggi pur tra le tante trasformazioni, evoluzioni e contaminazioni lungo l’avvicendarsi delle varie epoche. Molti rituali appartengono ormai al passato, chissà di quanti non vi è nemmeno più memoria; altri sono sopravvissuti fino a noi, e pur nelle loro moderne versioni tradiscono la loro ascendenza arcaica. Quelle umane credenze che caricavano i cicli solari dell’anno di molteplici valenze spirituali, che vedevano in certi giorni ritenuti sacri la manifestazione di forze soprannaturali in cui il bene e il male, la vita e la morte si incontravano; quell’atavico sentimento che vedeva ovunque materializzarsi spiriti benigni e maligni, e che dotava animali, piante e oggetti inanimati di poteri straordinari, oggigiorno sopravvivono forse soltanto nel mondo delle favole. Ma l’istinto religioso permane, a dispetto delle evoluzioni civili e scientifiche, e con esso permangono ancora certe credenze più o meno verosimili, più o meno fantasiose. Ancor più tenace della religione e del suo sistema di credenze è del resto per l’uomo il desiderio di far festa, il bisogno di ritualizzare un evento. Il rito è dell’uomo del presente quanto lo era di quello del passato, mantenendo intatta la sua valenza universale.

Come vedremo, in molte antiche usanze religiose i cicli solari e lunari che determinano il computo delle stagioni e dell’anno, attraverso il loro avvicendarsi di luce e di tenebra, sono stati presto assimilati alla vita e alla morte, generando una ricca congerie di rituali che ciclicamente accompagnano, scandiscono, e drammatizzano i vari momenti dell’anno solare. Riprendiamo e approfondiamo quanto già visto nel precedente numero di Amedit, su come i riti che segnano la fine dell’anno per salutare l’arrivo del nuovo sotto i migliori auspici – ovunque riscontrabili nel mondo fin da tempi remotissimi – siano tra i più elaborati e significativi, e di come permanga in essi l’impronta indelebile – per quanto mutata su un piano formale e squisitamente teologico-dottrinale – di quel ricco corollario di rituali che nell’antichità accompagnava le varie ricorrenze celebrate dalla fine di ottobre agli inizi di gennaio. Ugualmente, anche le altre importanti ricorrenze religiose che compongono il calendario delle celebrazioni annuali, mantengono l’impronta di questi retaggi arcaici; tra queste, le festività pasquali, come vedremo, sono forse quelle che più mostrano i segni evidenti di una universale “poetica spirituale” antica e sostanzialmente immutabile che l’uomo ha da sempre avuto nei confronti della vita e della morte. Una poetica variamente espressa attraverso il rito; una poetica che specula attorno al mistero della morte, tentando di travalicarlo, di comprenderne il significato, ma anche e soprattutto, di fornire all’uomo medesimo una via d’uscita dal dramma e dal senso di sopraffazione che la morte rappresenta. La rinascita, la vittoria della vita sulla morte, si ripropone come incessante anelito da parte dell’uomo, e trova nella Pasqua di Resurrezione un’ulteriore conferma di questa aspirazione.

Dal culto dei morti al Fuoco Sacro della Resurrezione

Il culto dei morti, l’idea di una morte non definitiva ma vista come un “passaggio” da una dimensione a un’altra (due dimensioni che coesistono e che in taluni particolari momenti si riunificano), il desiderio d’immortalità e di sempre nuove rinascite sono una costante in quasi tutti i riti che accompagnano il cambio delle stagioni o dell’anno solare. I giorni che vanno dalla fine di ottobre agli inizi di novembre offrono sotto questo aspetto il contesto ideale all’ispirazione di questi sentimenti. Sono i giorni in cui la natura sembra ripiegarsi su se stessa, nei quali la caducità della vita trova una sua più eloquente manifestazione in tante decadenti immagini: nel cadere delle foglie dagli alberi, nel profondo e lungo letargo in cui si eclissano molti animali, nella incombente coltre di lacrimevoli nubi dietro cui scompare il cielo. Il Sole sembra voler abbandonare la Terra al suo destino di morte (ciò comporta carestia, sterilità dei campi e mortalità negli animali). Ma l’uomo sa, perché lo ha osservato più volte, che nulla è definitivo, che le tenebre non prevarranno per sempre. Tornerà il Sole e con esso la vita riprenderà a trionfare in ogni sua forma. Questa esperienza diretta fa dire all’uomo che anche le anime dei suoi cari un giorno torneranno (proprio come gli animali che si risvegliano dal loro letargo); che anche i defunti torneranno a riappropriarsi un giorno dei loro sembianti proprio come gli alberi si rivestono a primavera delle loro rigogliose fronde. È un lungo, perdurante ciclico ripetersi di morte e di nuove rinascite.

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Ecco che quei giorni di inverno inoltrato rappresentano uno speciale periodo da consacrare alla memoria dei propri defunti, rendendogli omaggio, immortalandone il ricordo, recandosi in visita alle loro tombe; si giunge a credere che proprio nelle notti tra il 31 ottobre e il 2 novembre cortei di anime vaganti popolino le vie delle città, che ciascun defunto torni momentaneamente alla propria casa. In Italia e in varie parti d’Europa si banchettava, si allestivano tavole colme d’ogni sorta di cibo e bevande e si lasciavano letti vuoti e ben scaldati affinché il caro estinto di passaggio nella sua vecchia casa potesse banchettare, scaldarsi e riposarsi dal suo lungo viaggio, prima di tornare a svanire nuovamente, risucchiato dalla lunga e gelida notte di morte. In alcuni luoghi (come ad esempio la Sicilia) sono i cari morti a portare i regali ai bambini (un modo, questo, per garantire la continuità del ricordo e di un legame affettivo da parte dei bambini verso i loro familiari estinti). Il culto dei defunti affonda in un tempo immemore, certamente è stato tra le prime forme celebrative espresse dall’uomo. In epoca recente, la più antica testimonianza storica della commemorazione dei defunti, così come la conosciamo oggi, vien fatta risalire all’anno 998, in Francia, per opera dell’abate benedettino Odilone di Cluny, e da lì estesa man mano a tutta la Chiesa Cattolica, come giorno da celebrarsi all’indomani della festa d’Ognissanti. Tuttavia, interessanti analogie pongono questa festività in relazione con le Samhain (antiche feste celtiche che venivano celebrate proprio dal 31 ottobre all’1 novembre).

Presso gli antichi popoli celtici l’anno era scandito dai solstizi e dagli equinozi, cui venivano fatte coincidere le feste solari e lunari (che ancora oggi sopravvivono); le Samhain e le Beltain (queste ultime celebrate dal 30 aprile al 1° maggio) segnavano per l’appunto l’anno celtico in due metà, quella oscura (l’inverno) e quella luminosa (l’estate). Il 1° novembre era proprio il Capodanno celtico, e la particolarità nonché l’importanza delle Samahin consisteva nella loro duplice valenza: da un lato quella di esorcizzare la paura della morte e degli spiriti malefici, dall’altra quella di festeggiare la fine del vecchio anno. Nella notte del 31 ottobre ci si recava nei boschi o sulle alture per la cerimonia dell’accensione del Fuoco Sacro, durante la quale venivano effettuati anche dei sacrifici animali. Questi riti prevedevano anche l’uso di indossare delle maschere grottesche, e di deporre nelle proprie case delle lanterne costituite da cipolle intagliate nelle cui cavità erano poste le braci del Fuoco Sacro. Torce accese venivano poste agli usci delle case irlandesi dove tavole imbandite con cibo e latte attendevano le “visite” dei defunti. Ovunque in Europa e fino all’America Latina, sono rintracciabili analoghi riti atti a rendere omaggio ai defunti, sacralizzare le fasi di passaggio dei cicli solari/lunari, propiziarsi il bene e l’abbondanza per l’anno nuovo che giunge. La festa è un rituale che accomuna i membri di una comunità, nel tentativo di sconfiggere la morte e le forze avverse, e che idealmente ripropone l’eterno ciclo vitale di vita e morte che sottende alla natura. Molte delle pratiche originariamente legate a questo antico Capodanno celtico del 1° novembre hanno visto un graduale slittamento che ha accompagnato lo spostamento dell’inizio del Nuovo Anno fino all’attuale 1° gennaio.

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L’elemento “luce” appare una costante in tutti i riti che tradizionalmente hanno luogo nel periodo invernale (si pensi ad esempio alla festa di santa Lucia in Svezia e nelle regioni del Sud Italia, ai falò di San Geminiano a Pontremoli, o alle grandi Focare del Salento, in Puglia), ma anche in quelli primaverili (con i falò in onore a San Giuseppe in Val Trebbia); sono solo alcuni esempi, per lo più italiani, ma la sacralità del fuoco ha per l’umanità una valenza universale. L’accensione di torce, fiaccole e falò; la conservazione di “particelle” del Fuoco Sacro da portare a casa, nel proprio focolare domestico, sono manifestazioni comuni a molte tradizioni di diversi paesi geograficamente e culturalmente distanti tra loro (si pensi alla tradizione del “ceppo di Natale” che il 24 dicembre si accendeva nei focolari domestici di Francia, Inghilterra, nei paesi slavi, fino a giungere anche nel Nord Italia). Presso tutte le culture e nel corso di tutte le epoche, il fuoco occupa un ruolo fondamentale all’interno del rito e della festa, ed ovunque, esso ha una valenza di purificazione, ma anche e soprattutto, di rigenerazione. È il Fuoco Sacro che rischiara la tenebra, che vince il male e la morte, che ridona luce e vita. Ma nel fuoco si attua anche una trasformazione, si esprime un “passaggio” da uno stato all’altro, si celebra una rinascita.

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Non meno evidenti sono i segni di questo perdurante tentativo di sconfiggere la morte nei riti che celebrano la festa di Pasqua – più nella sua versione cristiana, che non nella sua originaria versione ebraica – sebbene in entrambe le tradizioni vi sia al centro il concetto del “passaggio”: per gli ebrei, che con questa festa celebrano il passaggio dalla schiavitù in Egitto alla liberazione, con l’attraversamento del Mar Morto; per i cristiani, i quali invece celebrano in essa il passaggio dalla vita alla morte mediante la resurrezione del Cristo, che è poi la resurrezione attesa da tutti i figli di Dio alla fine dei tempi. È però fondamentale ricordare come anche nel caso della Pasqua riemergano ancora prepotentemente le analogie che connettono i suoi riti e i suoi simboli a ben più remoti culti pagani; è solo compiendo un ben più ampio viaggio a ritroso nel tempo che tenga conto dell’intreccio dei vari culti, e dei vicendevoli apporti tra essi, che possiamo meglio leggere e comprendere i segni e i messaggi che una festa come questa può trasmetterci. Fare un excursus dei tanti culti che fin da tempi remotissimi interessano il ciclo delle festività primaverili, esula dallo scopo della presente trattazione. Il lettore che volesse meglio approfondire questo argomento, potrà trarre giovamento e utile diletto in un’ampia e accurata saggistica facilmente reperibile sul mercato.

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In questa sede ci limitiamo a citare soltanto uno dei culti primaverili più facilmente assimilabile alla moderna Pasqua cristiana, ossia quello dedicato al dio babilonese Tammuz, risalente a ben duemila anni prima di Cristo. Tammuz, venne risuscitato dagli inferi dalla sposa-amante Ishtar (la grande dea-madre personificazione della natura, della riproduttività e delle forze rigeneranti, il cui nome veniva pronunciato Easter, che in lingua inglese indica proprio la Pasqua); in onore di questo dio venivano eseguite in tutta l’area mediorientale lunghe e complesse cerimonie, atte a celebrare la sua morte e resurrezione. Le ultime propaggini della stagione invernale facevano da scenario al memoriale della sua morte, durante il quale i suoi fedeli osservavano un lungo periodo di lutto e di digiuno. Presso i greci del VII secolo a. C. egli assunse il nome di Adone (ossia “signore”, come il nome del dio ebraico Adonai, così chiamato al posto del tetragramma YHWH la cui pronuncia non era consentita ai semplici fedeli). Personificazione della natura rifiorente dopo i rigori invernali, il bellissimo Adone veniva onorato dalle vergini che si recavano al suo tempio recando in mano dei vasi in cui avevano amorevolmente fatto germogliare dei chicchi di grano, i cosiddetti “giardini di Adone”. Nei riti misterici delle Adonie (ciclo di feste in suo onore nel periodo tra aprile e maggio) la statua del dio veniva immersa nelle acque da cui dopo veniva fatta riemergere. Troviamo già in questi pochi accenni elementi facilmente riconducibili ai moderni riti pasquali. La quaresima cristiana ripropone in certo qual modo il periodo di lutto e digiuno dedicato al dio Tammuz defunto, così come i vasi con germogli di grano adornano tutt’ora i sacri sepolcri allestiti nelle chiese cattoliche il Venerdì Santo. Vi è poi, nella Pasqua, un forte connubio con i riti della Luce e del Fuoco Sacro che, come abbiamo visto, interessano un po’ tutte le celebrazioni religiose dall’antichità fino a oggi: durante la veglia pasquale, in ogni chiesa viene posto un braciere dalla cui fiamma si accende il Cero Pasquale, simbolo della rinascita e della resurrezione. Ma nei riti pasquali, ancor più forte è l’elemento legato alla fertilità, ben rappresentato dallo scambio delle uova pasquali, il quale ci riporta ancora una volta agli antichi culti pagani che avevano luogo al sopraggiungere della primavera; in tali occasioni, gli antichi popoli di Egitto, Persia, Grecia fino a Roma mangiavano uova colorate, chiaro simbolo di vita e di fertilità; i persiani ne facevano dono; nelle tavole dei caldei si consumavano uova dipinte e focacce calde con sopra inciso il segno della croce (va detto tra l’altro che il simbolo del dio Tammuz era proprio la tipica croce chiamata Tau). Persino l’agnello pasquale – simbolo del Cristo immolato che muore e risorge per la salvezza degli uomini – aveva presso le antiche popolazioni nomadi pagane un significato apotropaico e propiziatore legato alla fertilità.

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Per concludere, diremo che il fuoco, tra tutti gli altri simboli ricorrenti nei rituali, è da sempre un elemento immancabile nella celebrazione, e nella sua accensione – tanto nelle feste invernali quanto in quelle primaverili – esso segnava il “passaggio”, possedeva degli straordinari poteri, come quello di purificare o di scacciare tutte quelle personificazioni partorite dalla fantasia popolare (spesso supportata e alimentata anche da parte delle religioni ufficiali) come spiriti maligni, streghe e demoni. Ma il fuoco offriva soprattutto un’analogia con la luce irradiata dal Sole; nell’idea degli officianti, la luce dei falò, accompagnata da canti e danze, diradava le tenebre della lunga notte invernale ed era per il Grande Astro della Vita un aiuto a risorgere. In ultima analisi, tutte queste pratiche nel complesso, pur nelle svariate forme in cui sono state declinate di popolo in popolo e di epoca in epoca, presentano evidenti analogie e tradiscono i loro più remoti retaggi. Si tratta pur sempre di riti non soltanto apotropaici e propiziatori, atti cioè a garantirsi prosperità e benessere allontanando da sé ogni influsso malefico, ma anche capaci di fornire all’uomo un’ultima rivalsa sulla morte. Per conseguire questi scopi, c’è, sul piano religioso, in ciascuno di questi riti la messa in atto di un artifizio finalizzato ad attirarsi la benevolenza di una qualche divinità. Permane, in ognuna di queste azioni rituali, la componente magica che le ha viste generarsi, e questo nonostante i mille travasi che hanno subito, nonostante le ricontestualizzazioni e la risemantizzazione operata su più livelli dalle varie e pur sempre “recenti” religioni.

Giuseppe Maggiore

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 22 – Marzo 2015.

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