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Ma perché lo fai?

Creato il 26 dicembre 2010 da Stukhtra

Il più grande imbroglio della storia della fisica sperimentale

di Marco Cagnotti

Ma perché lo fai?
Io sono un fisico. Anzi, ero: non faccio più fisica da… beh, da tanto tempo. Mi occupo (quasi) solo di comunicazione della scienza, ormai. Va bene così: il mio daimon è questo. Comunque ero un fisico teorico. Anzi, un fisico matematico, per dirla tutta. L’ultima volta che ho messo piede in un laboratorio per fare qualcosa io stesso è stato nel 1988: “Esperimentazioni di Fisica II”, si chiamava quel corso. “Fisichetta 2″, per gli studenti. Quanti apparecchi ha sfasciato la mia goffaggine in quegli anni! Poi mi sono laureato sfangando, a forza di piroette con il Piano di Studi, i laboratori del terzo e del quarto anno. Tutto questo per dire che no, non sono uno smanettone e il gusto dell’esperimento non ce l’ho e non l’ho mai avuto. Tuttavia ho sempre avuto la precisa consapevolezza che la fisica non è una forma matematizzata di teologia, che l’edificio teorico può essere straordinariamente elegante ma che di teorie eleganti buttate nel cesso è lastricata la storia della scienza. E che l’ultima parola spetta sempre all’evidenza sperimentale. E’ giusto, anzi è inevitabile che sia così: il mondo non ci fa la gentilezza di essere come a noi piacerebbe che fosse. Dunque mi hanno sempre lasciato perplesso, perfino sgomento le figure degli imbroglioni.

Io tendo sempre a immedesimarmi. Di fronte a qualsiasi vicenda nella quale il lato umano è dominante (e a ben vedere lo è sempre), io cerco di entrare nella testa dei personaggi e di intuirne le ragioni, di farle mie, di chiedermi che cos’avrei fatto io al loro posto. Ma con gli imbroglioni scientifici proprio non riesco. Non ci arrivo. Non per elevate motivazioni etiche, ma per una banale, modesta, concreta ragione pratica: è stupido. La domanda è semplicissima: “Ma perché lo fai?”. Ovvero: “Per quanto tempo pensi di riuscire a sfangarla?”. Infatti la scienza è così: i risultati non solo devono essere riproducibili, ma di fatto devono essere riprodotti. Non esiste, nella scienza sperimentale, lo studioso che fa una scoperta rivoluzionaria, viene acclamato e subito gode di imperitura memoria. Macché: ottenere un risultato significa sottoporlo al controllo della comunità dei pari, che cercano di riprodurlo. Se non ci riescono, se nessuno ci riesce, sei fottuto e sputtanato. Perciò, se falsifichi i dati, prima o poi ti sgamano. Nella scienza non esiste il delitto perfetto: puoi fregare tutti per qualche tempo, puoi fregare qualcuno per sempre, ma non puoi fregare tutti per sempre.

Il falsario, del fisico svizzero Gianfranco D’Anna, narra in forma romanzata, cambiando i nomi dei personaggi, dei luoghi e delle compagnie, la vicenda scientifica di Jan Hendrik Schön: la più colossale e scandalosa frode conosciuta nella storia della fisica sperimentale. Il romanzo avrebbe meritato un’attenzione editoriale maggiore con un editing più accurato (i salti di punto di vista, per esempio, sono sconcertanti), però è avvincente. Tuttavia, bisogna pur dirlo, è pane per i denti dei fisici: il tecnicismo quasi ovunque è pesante. Tanto pesante che anch’io spesso ho intuito più che capito (con la scusante che ero un teorico e che anche da teorico mi occupavo di tutt’altro rispetto a questa roba qua). Ma, almeno per i fisici, Il falsario merita senza dubbio la lettura. Infatti l’ambientazione è estremamente verosimile (ovvio: D’Anna conosce bene quel laboratorio, avendoci lavorato lui stesso). Inoltre la psicologia dei personaggi è assai ben tratteggiata e il rovello interiore di ciascuno è descritto in maniera realistica.

Il fisico non è un angelo scientifico disincarnato e votato in esclusiva alla conoscenza, ma un essere umano come tutti gli altri, mosso da desideri, ambizioni, calcoli molto concreti e finanche meschini. Questa sua umanità se la porta pure in laboratorio, dove si svolgono (quasi senza eccezioni) gli eventi narrati dal romanzo. Fra i tanti personaggi, i più affascinanti sono Albert Hendrik Thebell e Thomas Gaiger. Thebell è il protagonista e rappresenta Schön. E’ il falsario. Ed è, ovviamente, degno del nostro biasimo. Eppure non possiamo non sentirlo vicino, non provare la tentazione di immedesimarci in lui, specie nei due momenti precisi (non sottolineati dall’autore ma evidenti per il lettore-fisico) in cui Thebell perde la propria innocenza e inizia l’inesorabile discesa verso gli inferi, verso la dannazione dell’imbroglio. Da quel momento si solleva costante una domanda nella mente del lettore: “Perché insiste? Perché non si rende conto che quella gloria è effimera e presto o tardi verrà comunque scoperto?”. Ebbene, proprio da lì in poi la figura di Thebell passa in secondo piano ed emergono di più le figure dei comprimari, dei colleghi e dei superiori, ciascuno mosso da pulsioni proprie ma tutti accecati dall’idea del successo, individuale o del laboratorio: gli articoli sulle riviste più prestigiose, la stima dei colleghi più autorevoli, alla fine addirittura il possibile Nobel. Da ultimo compare Gaiger, innocente e idealista perché ragazzino, quindi capace di porsi domande semplici, addirittura ovvie ma misteriosamente inconcepibili per tutti gli altri. Proprio come nella fiaba è il ragazzino che grida “Il re è nudo!”. Ed è la rivelazione. Che per il lettore rivelazione non è, perché questo è un romanzo la cui fine è scontata fin dall’inizio. Eppure, bizzarramente, la suspense c’è per tutte le sue 223 pagine: il colpevole è chiaro, la conclusione ovvia, e tuttavia il lettore-fisico è catturato dal racconto e continua a chiedersi quando e come arriverà l’epifania finale. Quando infine arriva, il senso di liberazione è grande. Ma rimane inesausta la domanda: “Perché?”.

G. D’Anna, Il falsario, Mursia

Piace: la caratterizzazione dei personaggi, l’ambientazione molto verosimile, la suspense.

Non piace: il tecnicismo che rende il romanzo (quasi) inavvicinabile per i non fisici, i salti sconcertanti del punto di vista.

Voto: 7/10


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