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Ma Raymond Carver non era minimalista

Da Marcofre

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Questo post nasce dalla lettura di un post a proposito delle nuove copertine che Einaudi ha preparato in vista della pubblicazione delle opere di Raymond Carver.

Sino a qualche tempo fa l’autore statunitense era di pertinenza di Minimum Fax. Adesso ha “traslocato” a Torino. E nel progetto che la casa editrice sta portando avanti, si è pensato di disegnare nuove copertine per i suoi racconti.

Le trovo brutte. Ho acquistato un paio di libri di Minimum Fax (“Vuoi star zitta, per favore” e “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”), e pure in quel caso l’impressione che ne ho ricavato è che fossero l’aspetto del libro sul quale soffermare il meno possibile lo sguardo. Ma in fondo può essere una questione di gusti, giusto?

E quindi possiamo chiuderla qui.

E invece no.

A me pare che le copertine continuino a ripetere l’idea che lo scrittore statunitense fosse “minimalista”. So benissimo che coi racconti di Raymond Carver è difficile schiantarsi dalle risate (però Kafka rideva mentre leggeva agli amici “Il processo”. Rideva).

Non solo.

Affermo che la definizione di minimalista serva a sviare l’attenzione dei lettori dal coraggio di Carver di celebrare l’umanità che fallisce. Che fallisce, si rialza, raccoglie i cocci e ci riprova. E non è detto che ci riesca. A volte, riuscire, significa arrivare al mattino dopo. E poi a quello successivo. E a quello seguente ancora. Nient’altro che questo.

Ecco: tutto questo è meglio definirlo minimalista per continuare a sognare una parodia di realtà dove la volontà, l’impegno, l’amore, vincono. Be’, magari succede: nei film.

La realtà è più brutale.

Raymond Carver porta sul palco una provincia dove il sogno americano non si è mai visto, e dove c’è qualcosa di peggio dell’incubo. È il giorno da portare a compimento; o la notte da passare. E le bottiglie, l’alcol, la mancanza di lavoro, l’amore che finisce, non è minimalismo, ma vita. E la vita non è mai minima.


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