Magazine Diario personale

Ma tu che lavoro fai?

Creato il 10 giugno 2015 da Denise D'Angelilli @dueditanelcuore

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Chissà perché per tutti noi è sempre così importante sapere che lavoro faccia la persona che abbiamo di fronte. Io lo voglio sapere per capire da subito se devo odiarla o stimarla, se devo rosicare o fare spallucce, se abbiamo qualcosa in comune o se siamo, almeno lavorativamente, due rette parallele destinate a non incontrarsi mai. O forse c’è che la curiosità è alla base del lavoro che faccio e no, non sono un investigatore privato come il padre di Veronica Mars.

Il lavoro che faccio io è quel lavoro che “oh wow che bello,  ma quindi?”, ed è quel “quindi” che di solito precede la faccia del “dai, questo non è un lavoro, intendo il lavoro vero, quello col quale ti paghi l’affitto, cioè, chi ti paga lo stipendio”. E io che pensavo che queste frasi fossero destinate solo ai musicisti o ai disegnatori, invece qualunque lavoro esca dal recinto del “ho uno stipendio fisso ogni 15 del mese” non è un lavoro vero.

Il mio stipendio me lo pagano più persone perché emetto delle fatture, non ho ancora capito bene come, perché ho una partita iva, non ho ancora capito bene perché, e perché sono una libera professionista, non ho ancora capito bene niente. Freelance? Una che lavora su e con internet? Una che lavora con le parole? Nullafacente? Chiamatemi come volete, nemmeno io stessa so come chiamarmi, e devo pure rifare la carta d’identità e solo il cielo sa quanto questa dicitura mi stia mettendo in crisi. Mi sembra così assurdo dover fare questi discorsi nel 2015, quando ci siamo tutti arresi di fronte al fatto che no, il lavoro fisso non c’è, ce l’hai solo se sei un avvocato in Suits, e che se hai la botta di culo di avercelo comunque è bene affiancarlo ad altre sessanta cose per avere un tenore di vita che si avvicini almeno al livello minimo di decenza

Io faccio quel lavoro che un minuto c’è e quello dopo chissà, che va a periodi, che se una collaborazione finisce arrivederci e grazie e via di nuovo a cercarne di corsa un altro perché l’affitto non si paga da solo.  E non si paga da solo nemmeno il commercialista, la persona che ha in mano la mia vita, che mi fa nuotare nelle scartoffie che non comprendo, che mi parla una lingua che non conosco e che mi rende sempre più povera e miserabile.

Faccio quel lavoro che mi fa stare giorni seduta sul letto a fissare il muro davanti a me ripetendo “ma ne vale davvero la pena?”, che mi mette di fronte al fatto che devo scegliere se aspettare tot mesi e finire quello che ho iniziato o dire ciao a tutti e iniziare una cosa nuova da capo sperando che duri di più. Un lavoro che non so spiegare alla mia famiglia, ai miei amici, ai miei conoscenti, soprattutto non so spiegarlo a mio nonno Aldo, che ha 84 anni e che se non ti vede con una pala in mano ti dice che tu il lavoro non sai nemmeno dove sta di casa. E forse ha ragione, io in fondo come faccio a spiegargli che spesso vengo pagata per creare della fuffa, che non avrò uno straccio di pensione, che anche stare attaccata al telefono fa parte della mia professione.

Spesso non ho un ufficio dove andare tutte le mattine, e quando ce l’ho è un ufficio dove non devo timbrare il cartellino, posso fare tante pause pipì, bere tanti the, chiacchierare con i miei colleghi, che cambiano molto spesso. Faccio un lavoro che spesso mi permette di lavorare da casa, in pigiama, col trucco della sera prima e senza nemmeno lavarmi la faccia, con i capelli dritti e tutta la musica che voglio ad alto volume. Mi faccio venire il culo piatto e il mal di schiena mentre seduta sul letto pigio i tasti del pc e mi brucio le cosce quando questo si surriscalda. La maggior parte del tempo lo passo aspettando bonifici che devo fare i salti mortali per ricevere, non ho lo stipendio fisso ogni fine del mese e quindi se un mese non arriva il lavoro allora sono cazzi amari.

Adesso, per esempio, sono in ferie. Non che le abbia volute, non che siano pagate. Sono in ferie forzate e cerco altro mentre aspetto settembre per ricominciare a fare quello che ho fatto fino a dieci giorni fa. E qui casca l’asino: che faccio? Che cerco? Dove vado? Qualunque cosa. Non mi vergogno di dire che per mangiare devo passare dal dorato mondo della televisione a quello di Zara, dal glitterato mondo di una redazione a quello di un ristorante. Non mi vergogno di dire che faccio un lavoro che per qualche mese ho avuto la fortuna di fare come lavoro primario, ma che spesso dev’essere accompagnato ad altro, o le bollette si accumulano, la dispensa resta vuota e anche lo stomaco. Cerco qualunque cosa abbassando la testa e le ambizioni.

Non posso prenotare le vacanze perché non so se dovrò lavorare. Un giorno mi piace, un giorno no. Un giorno è tutto quello che volevo dalla vita, il giorno dopo è uh incubo vestito di lustrini.

E pensare che io volevo solo fare la scrittrice, punto. Volevo raccontare delle storie, volevo raccontare le mie avventure o quelle di qualcuno che esiste solo nella mia testa. Volevo pagarmi l’affitto così, con una rubrica su Vanity Fair e con i miei libri sugli scaffali della Feltrinelli, con le ospitate in tv a spiegare perché scrivo così tante parolacce, in fondo a volte non ce ne sarebbe nemmeno bisogno, ma a me piacciono. La colpa è tutta di Carrie Bradshaw che con due libri del cazzo pieni di roba che sappiamo già tutte e una rubrica che è la fiera dell’ovvio ci si riempiva la scarpiera di pezzi costosissimi, ci si pagava una casa da sola a New York e poteva ordinare il cinese anche tutte le sere e aveva tutto quel sacrosanto tempo per scopare. Volevo essere la voce della mia generazione, quella che ce l’ha fatta, quella alla quale le persone scrivono per chiedere consigli, quella che poteva sbattere in faccia i risultati a quelli che “ma dove vuoi andare”. In parte posso farlo, ma solo ogni tanto.

La spinta che mi fa andare avanti oggi è solo una: in fondo non sono così lontana dall’idea che avevo della mia vita. Più incasinata, con meno soldi, senza New York, ma comunque accettabile. E più cose faccio, più ho da raccontarne. Finiscono tutte in quel pdf che si chiama “NO” e che ho sul desktop del pc, che altro non è che il mio libro, al quale mancano solo due capitoli.

Poi è chiaro che ci sono le preoccupazioni, il sentirsi idiote a stare ancora a cercare di realizzare i propri castelli in aria, e così, ogni  sera, prima di addormentarmi, mi chiedo: è questa la vita che sognavo da bambina?



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