Se appare indubbio che il ritorno alle origini abbia solo giovato al cinema di Robert Rodriguez, eliminando quello scarto tra voglia di maturità e gusto per il puro divertissement e il citazionismo ridondante, l’equivoco sulla caratura del suo cinema rimane. Rodriguez è di certo abile nel giocare con i gusti del pubblico con un genuino gusto per l’intrattenimento puro e scanzonato, ma il suo cinema è privo di guizzi che ne scuotano le opere e ne immortalizzino le trovate più gustose. Machete ne è l’ulteriore dimostrazione. Un film che vive di questa carrellata di personaggi deliranti e fantastici, colmi di una fisicità cruda e parossistica, esibita con entusiamo, morbosità e giusto dell’iperbole, ma che sotto la superficie rischia il corto circuito e finisce per annoiare, un pò per l’assenza di ritmo, un pò perchè inghiottita proprio dalla sua natura programmaticamente commerciale.
Se Tarantino, per quanto si impegni nella de-intellettualizzazione del suo cinema non può paradossalmente sfuggire al suo talento e alla sua innata sofisticatezza e può permettersi piani sequenza infiniti e dialoghi impensabili, all’interno di un cinema che presenta un equivocabile discorso teorico interno, la rozzezza esibita da Rodriguez trova perfetta espressione nei suoi due ultimi film, ma questa funzionalità grindhouse, non riesce mai a andare oltre la superficie e trovare una conclusione che veicoli un ripensamento e una ricontestualizzazione del cinema che omaggia. Il risultato è un film che vive e muore di azione e situazioni estreme e che esaurito il riverbero dei suoi assi nella manica (la faccia straordinaria di Trejo, la sensualità straripante di Jessica Alba, il body count pirotecnico) finisce per pagare lo scotto proprio sotto il piano della pura spettacolarità e dell’intrattenimento.
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