Anna Maria Cantarella 25 marzo 2013 teatro, vedere Nessun commento
È il breve volo di una farfalla la metafora più adatta a descrivere le vicende di Cio-Cio-San, la Madama Butterfly protagonista dell’opera pucciniana. Lieve e delicata è la sua personalità, fragile il suo mondo interiore che si sgretola alla notizia che suo marito, un americano bugiardo e senza scrupoli, non tornerà più da lei. Amata dagli spettatori di tutti i tempi, Madama Butterfly di Giacomo Puccini (su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa) è uno dei più travolgenti racconti operistici di amore, lealtà, tradimento e morte. Al suo interno leggiamo gran parte delle suggestioni orientali che stimolavano la fantasia di tanta letteratura allo scadere del XIX secolo. Non sempre si trattava di un processo felice; era piuttosto una fascinazione che sfociava ben presto nella rappresentazione di un incubo più che di un sogno, un’attrazione che diveniva straniamento, come se il confronto con il diverso – considerato indecifrabile e quindi indescrivibile – non potesse che condurre ad un esito traumatico. Puccini, che scrive l’opera esattamente negli anni in cui il Giappone si sta affacciando sul palcoscenico della politica internazionale, sembra avvertire tutto il peso di questo fascino che diventa shock e mette in scena quello che potremmo definire un contrasto tra culture. È come se la triste storia della giapponesina sedotta, abbandonata e suicida – seppure utile per attrarre il pubblico con una vicenda che stimola facilmente la commozione – fosse solo un pretesto per raccontarne una ben più triste, quella di due mondi che fanno fatica ad incontrarsi. Il Giappone, terra incantata e misteriosa, delicata e terribile è quindi lo scenario di questa tragica storia d’amore tra uno yankee e una quindicenne giapponese che si conclude con il suicidio di lei, affranta dopo aver scoperto che l’amato Pinkerton – che era partito per l’America e aveva promesso di ritornare – ha sposato un’altra donna, americana come lui. A Cio-Cio-San, che a causa del matrimonio è stata ripudiata dalla famiglia, non resterebbe che lasciare il figlioletto a Pinkerton e ritornare alla sua vita di geisha ma lei preferisce la morte perchè, come recita l’incisione sul pugnale, «con onor muore chi non può serbar vita con onore». Il sogno americano è per sempre infranto; del resto anche Butterfly aveva subìto il fascino dell’esotismo in senso contrario, desiderando di allontanarsi dalla propria cultura di appartenenza per immergersi in una nuova realtà, nella quale liberarsi del passato e delle frustrazioni.
Vorrebbe volare verso l’Ovest Butterfly, ma il processo di avvicinamento all’Occidente è denso di pericoli perchè è costellato di immagini stereotipate che ben presto portano la protagonista all’inevitabile disillusione. A questo punto non resta che scegliere la morte come strada per la catarsi, per ribadire le dimensioni di un amore che va oltre ogni ragione. L’esotismo di Madama Butterfly non è solo di cornice. È il motore dell’opera, la caratteristica più evidente dello stile. Le scale pentatoniche ed esatonali incomplete, i ritmi di danza orientale, i “timbri” degli strumenti tradizionali e i temi orientaleggianti sono l’aspetto più evidente della minuziosa ricerca che Puccini fece per la stesura di questo capolavoro. Il musicista, se da un lato inventa ex novo temi orientali, dall’altro rielabora quelli originali per costruire un insieme musicalmente coerente, perfettamente accostato alle invenzioni melodiche tipicamente occidentali. Non c’è una défaillance nella rappresentazione di Madama Butterfly del Teatro Massimo “Vincenzo Bellini” di Catania. Guidata dalla performance eccellente del soprano Rossana Cardia, dalla regia semplice ma intensa di Roberto Laganà Manoli e dalla direzione vivace ma meticolosa del maestro Fabrizio Maria Carminati, l’opera è stata avvincente dall’ouverture alla chiusura del sipario. Il fondale è rimasto immutato durante i tre atti ma questo, lungi dall’essere un dettaglio monotono, ha sottolineato ancor di più la dimensione intima di molti passaggi del testo e in particolare delle vicende del secondo e del terzo atto, che vedono una Cio-Cio-San sempre più insicura e afflitta aggirarsi tra la casa e il giardino in attesa del ritorno dell’amato, mentre i fiori di Sakura riempiono il pavimento.
Fin dall’inizio, il tenore Sebastian Ferrada tratteggia un Pinkerton insensibile, sprezzante delle differenze culturali e ignaro delle conseguenze delle sue azioni. Il soprano Rossana Cardia offre invece il ritratto di una Cio-Cio-San accattivante, forte, devota, particolarmente nel duetto d’amore tra Pinkerton e Butterfly, momento clou della fine del primo atto. Sognante e speranzosa l’interpretazione di Un bel dì vedremo, l’aria più famosa dell’opera, annunciata da una trascinante sequenza vocale in cui Antonella Colaianni (Suzuki) ha fatto emergere tutta la fedeltà, lo slancio e la tenerezza del personaggio dell’ancella. Performance degne di nota anche quelle del tenore Riccardo Palazzo nei panni di Goro, il mediatore di matrimoni, e di Giovanni Guagliardo nei panni di Sharpless, la cui presenza sul palcoscenico ha spesso fornito sostegno emotivo a Cio-Cio-San. La regia di Laganà Manoli è apparsa da subito semplice ma ricca di piccoli dettagli essenziali: i movimenti dei kimono delle donne, i gesti misurati e i piccoli passi di tutti i protagonisti giapponesi sul palco in aperto contrasto con la gestualità eccessiva di Pinkerton, la posizione finale del corpo di Butterfly che si è trafitta con il pugnale. Ci sembra dunque che la messa in scena del Teatro Massimo sia stata perfettamente all’altezza della rappresentazione di tutti i conflitti che albergano all’interno del melodramma. Emerge con chiarezza il conflitto tra civiltà, così come sono evidenti i conflitti psicologici che tormentano l’io della protagonista che per amore si allontana dalla sua cultura, rinuncia ai legami familiari e si fa vittima di un destino crudele, sacrificandosi per difendere il proprio diritto alla libertà e all’amore materno di fronte all’incomprensione.
Fotografie di Giacomo Orlando per il Teatro Massimo Bellini di Catania