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Film strano, o forse strano perché reduci dalla visione di Polytechnique ci aspettavamo che anche nelle sue opere pregresse Denis Villeneuve scolpisse con sapienza hanekiana il granito del dramma, invece no. Il che è comunque plausibile visto che Maelström, oltre ad essere in assoluto l’opera seconda del regista canadese, precede il film del 2009 di ben nove anni nei quali Villeneuve ha realizzato solo due cortometraggi.
Pellicola sgusciante, non incastonabile in una precisa categoria, che fin dall’inizio mostra i territori fantastici che lambisce: un pesce parlante prossimo al macello come narratore interno della storia. Si palesa perciò uno stretto legame con il mare (il maelström è un fenomeno naturale caratterizzato da correnti marine molto forti) che fa capolino più e più volte durante il racconto.
Dal mare arriva il pesce cantastorie, nel mare si getta la protagonista Bibiane per tentare di espiare le proprie colpe. Il senso di colpa, infatti, occupa una posizione di rilievo nella vicenda poiché è causato da un duplice evento: l’aborto e l’incidente stradale. Ma dal mare arriva anche il sommozzatore Evian, e sempre lì finiranno le ceneri del vecchio pescatore.
Appurato quindi questo stretto dialogo tra l’acqua e le persone, non resta che interrogarci sul senso dell’opera, che è discretamente semplice, ovvero la vicenda di una donna che si redime attraverso l’amore. Semplice, quasi banale. Non brutto, per carità, ma ovvio, pressoché scontato, manca un’idea forte. Certo, la trasmissione di tali coordinate viene effettuata da Villeneuve con una ricercata forma estetica e sonora (lo score variegato), ma alla fin fine sottraendo tali componenti non resta che l’ordinaria eloquenza sopraccitata.
Vincitore del FIPRESCI al Festival di Berlino ’01.
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