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Maldimare

Creato il 25 novembre 2011 da Fabry2010

Pubblicato da monicamazzitelli su novembre 25, 2011

Maldimare
Di Arianna Orelli

Oggi, Domenica 20 Settembre 1999, ho 16 anni e sto lavando i piatti.

La casa è piena di un silenzio strano: i miei si stanno preparando per uscire, mia madre fin nel più piccolo dettaglio, mio padre, già pronto, aspetta come un orso in poltrona e mia sorella, nella nostra camera a pois, è persa in qualche inconsistente occupazione.
Io sento di odiare l’acqua fredda, l’argento metallico delle forchette e dello scolapiatti mi deprime come al solito, ma oggi ho un buon motivo per sollevarmi dal torpore pre-autunnale: fra poco arriva Aldo, è tutto organizzato.
Loro saranno fuori, mia sorella ci lascerà in pace e noi avremo qualche ora solo per noi, da trascorrere fra il rosa/fucsia dei baci prolungati e i fiori del divano.
Da parte mia fingo calma domestica e domenicale. Infatti ho le pantofole.
Questo piccolo particolare, utile più che altro a depistare i miei, mi procura uno stato di agitazione, come se sottraessi verità alle mie azioni, una specie di ladra, di clandestina in casa.
A parte le ciabatte, funzionali, ho scelto tutto con trepidazione: i miei jeans preferiti e la maglietta grigia con gli inserti azzurri, così mi risaltano gli occhi.
Trucco quasi niente, sempre per non destar sospetti.
Fra poco arriva Aldo, e loro non lo sanno.
Fra poco arriva Aldo e mia sorella, che è l’unica a sapere, mi guarda con disagio, poi scompare.
All’improvviso si materializzano i miei, tutti e due sulla porta, una sorta di foto lunga e stretta della coppia genitoriale, mi destano bruscamente dal sogno colorato dei baci e del divano.
“Noi andiamo, mi raccomando ai piatti”.
Infatti, quando arriva Aldo, sono ancora lì a lavare, facendo più in fretta che posso, mentre lui è seduto in salotto, da solo.
Finalmente riesco a raggiungerlo, in genere sono lenta a spolverare, sciacquare, insomma a ramazzare, ma stavolta ho messo il turbo e, tolto il grembiule, volo anch’io sul divano, farfalle nella pancia ed occhi a cuore, come ogni adolescente che si rispetti.
Lo contemplo a distanza ravvicinata: lo sguardo eschimese, i capelli scuri come una notte senza fine e il naso, leggermente schiacciato. In pratica un nativo americano, ma di Talenti, quartiere romano mai sentito prima di conoscere lui, per me un’altra galassia, e che distanza siderale aveva percorso, in motorino, per venirmi a trovare!

Un mese fa, sul litorale, la prima forte emozione: ombrelloni rossi chiusi, come dormienti, sabbia umida a sostenerci e contatti prima leggeri poi sempre più importanti, in zone del corpo ancora tutte da esplorare.
Un dipinto da togliere il fiato, una pagina perfetta di diario, una sera con mille lune accese: sopra di noi, sulle labbra, sulle dita, nella pancia.
Peccato che mentre ondeggiavo fra il piacere e il mal di mare la lunga ombra di mia madre, col dito alzato a rimproverarmi, avesse fatto capolino più volte nell’immaginazione.
Escluso il materno monito bigotto, che mi raggiungeva come un’allucinazione intermittente, l’esperienza era stata una vera delizia: le sue mani come fiori dal profumo forte, ma non disturbante.
Un’ora o due di piacevole cullarsi, anche se non eravamo andati oltre.

Adesso, in questo ampio salone dove son più spifferi che calore, basta un attimo e siamo nuovamente occhi negli occhi, le bocche appiccicate: i baci sono caramelle irresistibili, da succhiare e risucchiare.
C’interrompe mia sorella, decisamente accigliata: “Ciao, io esco” e in due secondi è già per strada.
Riprendiamo fiato e poi via, ancora una volta sul binario dritto e veloce dei baci, a cui si aggiungono le mani e figure sempre più scomposte sul divano.
Torna un intenso profumo d’ibiscus, rivedo le lune e pure qualche sprazzo di sole, ma qualcosa nell’energia è cambiato, qualcosa nella stanza, nella casa.
M’avvolge d’un tratto un’aria tesa, la culla notturna di quest’estate si tramuta piano in una stiva, il mare diventa burrascoso, noi veniamo sballottolati senza direzione per poi cadere a terra, sul marmo, freddo come il Polo.
Lui mi tira con le braccia e con i denti, che mi appaion sempre di più zanne di cane.
Ringhia, sbava, pretende il suo osso, con movimenti tenaci e costanti mi tiene stretta a sé e non mi molla, neanche per sogno.
Io combatto, strattonata fra desiderio e terrore. Per poco non mi spezzo.
Non c’è nessuno, nemmeno il pensiero di mia madre, ma solo il pavimento, il seno nudo contro l’aria gelida, i suoi occhi appuntiti che non mi vedono, le gambe quasi a scalciare e la sua bocca avida dappertutto.
Ho la sensazione di esser sotto assedio, mi guida un istinto primordiale di difesa.
Non capisco nulla, so solo che non va, non è il momento, resisto senza comprendere perché, l’incontro rosa trasformato in un tormento, ci dibattiamo come animali sull’erba, una zuffa interminabile, che finalmente a un certo punto si smorza e muore.

Le guance rosse, la faccia da laziale… ora non vedo più l’indiano pelle scura, ma un ragazzo imperscrutabile, un lupo affamato, orfano di padre.
Ci ricomponiamo con una lentezza esasperante, presagio cupo del lutto già in corso, dell’addio, del freddo che seguirà l’Autunno e il salone sottosopra.
Mi sembra di aver giocato una partita e sono confusa su chi abbia vinto, probabilmente è stato un brutto pari.
Lui di sicuro qualche cosa me l’ha estorta, infilandomi di forza due dita nel canale magico del  corpo. Non esattamente il premio che cercava, ma alla fine si è dovuto accontentare.
Ed eccolo che se ne va, la coda fra le gambe, un cane lupo che sa di aver sbagliato ed è pentito.

L’indomani ne parlo con Ale, la mia compagna di banco. Lei mi racconta di lotte simili, delle vagine, che sono sempre ambite, del suo ragazzo e delle loro storie… sai che consolazione!
Quando, qualche giorno dopo, chiamo Aldo al telefono, rintanata in bagno come belva risoluta ma ancora conturbata, le parole escono fuori da sole.

“Mi dispiace, non possiamo più vederci”.
“Ah, ma come… ma perché… va beh, se vuoi così”.

Io mi fermo ancora un po’ in bagno, con i pesci blu sulle piastrelle bianche.
Loro mi osservano con grandi occhi pallati mentre, seduta sulla tavoletta anch’essa blu oltremare, eseguo questa recisione chirurgica del cuore.

Il mio primo benservito sentimentale.

Immagine di Francesca Orelli


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