Poi ho cambiato idea. Ma questa è un'altra storia.
Mi ero iscritta a Psicologia, per la precisione Psicologia dello sviluppo. La mia tesi triennale è arrivata dopo un percorso intenso e molto interessante legato al mondo dell'immigrazione, intrapreso con il mio professore di antropologia culturale, e l'ho amata moltissimo.
Riguardava l'etnopsichiatria infantile, in particolare l'approccio di George Devereux e della sua allieva Marie Rose Moro.
Vorrei riuscire a farla breve: l'etnopischiatria da un punto di vista metodologico si fonda sul complementarismo, ovvero i fenomeni umani vengono considerati secondo una prospettiva sia psicoanalitica che secondo una prospettiva antropologica. Tra le due discipline solo la psicoanalisi è chiamata ad indurre i cambiamenti mentre l'antropologia permette la comprensione dei fattori collettivi, delle rappresentazioni sociali e culturali che strutturano l'identità umana e la sua organizzazione.
L'importanza di questo approccio, specie se rivolto a chi arriva da una cultura differente, a chi vive e ha vissuto il trauma della migrazione permette di cogliere aspetti diversi del medesimo oggetto. Per questo il gruppo di terapia comprende varie figure, antropologi, linguisti, psicologi così da permettere la comprensione dell'altro "situato".
Si intuiva già allora la mia diffidenza per il modo di guardare alle cose della psicologia pura. Diffidenza che mi ha portato a scegliere percorsi molto diversi e più concreti per proseguire i miei studi. Percorsi devo dire anche meno intensi e coinvolgenti da un punto di vista emotivo e personale. Più semplici. A fronte dell'ammissione che non tutti possono essere psicologi. Perchè è un lavoro importantissimo e da non sottovalutare. Va fatto bene. E si deve lavorare tanto su di sé per poter accogliere senza giudizio o preconcetti il dolore e le difficoltà dell'altro.
Ma questa come dicevo è un'altra storia.
L'immigrazione ed i suoi protagonisti sono sempre stati un argomento che ha catturato la mia attenzione, la mia curiosità e la mia solidarietà. Ho lavorato al loro fianco per un periodo e ne conservo ricordi bellissimi. La bellezza data dal coraggio di chi ha scelto di cambiare. Perchè non aveva altra scelta.
Credo nel bello del diverso. Vorrei una società il più multietnica possibile.
Ammiro la ricchezza e la complessità delle esperienze e dei vissuti che un emigrante porta con sè.
Ho vissuto un anno negli Stati Uniti e ho adorato avere amici di tutti i colori e di tutte le usanze. Ho imparato tanto. Ho mangiato spaghetti vietnamiti e vero curry indiano, ho ballato danze portoricane e messicane, ho provato varie acconciature afro e ho imparato un pò di dialetto siciliano da una nipote di migranti italiani.
Un pò mi sono sempre sentita migrante anch'io, per quanto molto ma molto fortunata, prima seguendo mio padre e il suo lavoro in giro per l'Italia e poi seguendo l'istinto camuffato sotto il "vado a studiare fuori casa". Non sentendomi mai davvero a casa del tutto, mai in nessun posto, perchè un pò avevo messo radici lì, ma un pò le volevo lasciate anche là.
Credo che il nostro paese abbia sbagliato completamente nelle politiche e nei toni e che dimostri in continuazione di non saper accogliere, perchè chiuso, bigotto, rude e arretrato. E sicuramente molto impreparato. E lasciato solo. Lampedusa è lasciata sola e io, qui dal mio calduccio comodo, posso solo dire grazie ai suoi abitanti.
Si deve fare qualcosa. Di diverso. Non ho la risposta, non so quale sia la strada migliore, non saprei da che parte cominciare. Ma so che prima si aprono le braccia e poi si troverà tutti insieme una soluzione.
Lo diceva Bauman: "Le porte possono anche essere sbarrate, ma il problema non si risolverà, per quanto massicci possono essere i lucchetti. Lucchetti e catenacci non possono certo domare o indebolire le forze che causano l'emigrazione; possono contribuire o occultare i problemi alla vista e alla mente, ma non a farli scomparire."