Si comincia con la doverosa menzione del museo che ospita la mostra, la Gare d'Orsay: un museo che vale i 10 euro di biglietto solo per sedersi nella sua immensa aula a lasciarsi sommergere, permeare, incantare da quel che era, una stazione ferroviaria, quel che è, uno dei musei più belli del mondo, in cui il contenitore, stupendamente rivissuto, gareggia col contenuto.
Mi innamorai di Gae Aulenti dalla prima volta che entrai a Orsay, così come sono nata innamorata di Vasari, non sapendo nemmeno quando per la prima volta camminai, per mano a mio padre, nel silenzio metafisico e vuoto del corridoio degli Uffizi.
Si passa poi alla dichiarazione che Manet val bene una coda: anche una coda di 95 minuti, nella varaibilissima primavera parigina, freddo, pioggia, vento e sprazzi di sole, circondata dalla pazienza e dall'aspettativa di qualche centinaio di martiri, come me immolati alla realizzazione dell'aspettativa.
Una mostra che ho visto ben 3 volte, per ora, nei frequenti passaggi da Parigi di quest'anno, che certo, se potrò, tornerò a rivedere.
Incantata, sì, incantata.
Dal bianco: dalle larghe piatte stesure di quelle campiture che costruiscono immagini, fantasmi, persone e idee, apparizioni.
Jeanne Duval, l'amante di Baudelaire
Madame Manet su un sofà azzurro
il letto di Olympia
l'estate in barca
un mazzo di asparagi
Ma sono anche i suoi neri, larghe chiazze di buio, profonde e cupe, che scandagliano l'anima
Berthe Morisot
Nina de Callias
Il torero morto
Chi ha detto mai che la realtà non è in bianco e nero?