Se volete capire Mani Pulite pensate alla spassosa, grottesca e strampalata avventura del Molleggiato al Festival di Sanremo. Lustri e lustri di cretinate riconosciute improvvisamente per quel che sono, senza alcuna pietà per un guitto che aveva messo istintivamente la sua prodigiosa e coltivata malagrazia al servizio del più aggiornato conformismo progressista, nelle cui aristocratiche stanze era stato introdotto al solo scopo di servire da cannone contro il «regime». Ora che col cinghialone di turno in panchina il cannone spara a salve, il puzzo plebeo si sente tutto, e il re degli ignoranti è stato messo alla porta. Il voltafaccia collettivo ha trovato in Eugenio Scalfari una delle voci più spietate. Il vegliardo ha parlato dalla cattedra di Repubblica da professore deluso, mandando idealmente l’ex protetto dietro la lavagna, non senza le orecchie d’asino d’ordinanza, con una lezione sul qualunquismo improntata a didattica pacatezza, il tono usato dagli imbonitori più sussiegosi per invitare con garbo i gonzi a non opporre repliche. Meno spudorata di Scalfari è stata quella mezza Italia che per tanti anni è riuscita a riconoscere un valore civico alle squinternate sparate del predicatore, cui la forma balbuziente dava un tocco di viscerale sincerità. Tuttavia questa mezza Italia quasi come un sol uomo si è allineata spontaneamente al moto di condanna, come se in questa commedia essa non avesse mai recitato. Ancora una volta, ed anche in una vicenda tutto sommato minore e ridicola, l’Italia migliore si è distinta par la straordinaria capacità di rimuovere il passato. Anzi, sembra che questa poco nobile qualità sia il presupposto indispensabile per accedervi.
Così, nell’occasione del ventennale di Mani Pulite, vogliamo per l’ennesima volta ricordare agli smemorati che Mani Pulite all’inizio prese alla sprovvista la sinistra; che la sinistra si mantenne guardinga per qualche tempo, perché la contestazione anti-partitocratica che coi suoi meriti e con le sue esagerazioni populistiche faceva forti i magistrati del pool di Milano nasceva a «destra», nel cuore dell’Italia bianca e conservatrice, che di lì a pochissimo avremmo ritrovata nel campo berlusconiano; che l’operazione Mani Pulite avrebbe potuto significare un benefico bagno di verità per tutti, non tanto e non solo per la classe politica, se la sinistra, con l’istinto rivoluzionario che sempre s’affila nei momenti in cui per un paese arriva la delicata stagione della muta, non l’avesse dirottata ai propri fini, rinchiudendola nel ghetto vendicativo di una legge esemplarmente strabica. Ma tutto questo non sarebbe stato possibile se in Italia non ci fosse stato anche allora un popolo pronto alla rimozione della propria storia, compresa quella respirata fino al giorno prima. La «rivoluzione» non riuscì, ma il tarlo della menzogna continuò a rodere le fondamenta della nostra società. E non potranno esservi leggi di sorta capaci di porvi argine, senza un esame di coscienza collettivo.
Non sorprende quindi che a vent’anni di distanza il ministro della giustizia Paola Severino parli di Mani Pulite come di un «fenomeno giudiziario importante che ha fatto emergere un fenomeno criminale importante, quello del finanziamento illecito dei partiti e dei vantaggi illeciti», invece di parlare con onesta schiettezza di un fenomeno giudiziario importante che ha fatto venire a galla un segreto di Pulcinella, una pratica che era solo la proiezione in chiave politica di quell’aggiramento della legge destinato a diventare lo sport nazionale in un paese dove il ginepraio legislativo premia l’irresponsabilità, ingessa qualsiasi attività ed alimenta la diffidenza sociale, e nel quale quel che resta dello stato e dell’istinto di conservazione di un popolo si accontentano di un tacito accordo al ribasso. Ecco perché Mani Pulite fu allora un’altra occasione persa per fare i conti con la nostra storia. Un modo per lavarsene le mani.
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