Manzella-L’isola legata
L’antimafia è un arcipelago variegato. Ci sono quelli (e sono molti) che lavorano in silenzio e fanno semplicemente il loro dovere a scuola, sul posto di lavoro, nei rapporti quotidiani con il prossimo. Ci sono quelli che hanno bisogno invece di farsi notare perché temono di non essere visibili dato che oggi esiste solo chi riesce ad apparire nell’oceano in tempesta del mondo virtuale nel quale viviamo. Un mondo di cartapesta, ma unica via di salvezza per non pochi individui.
Così, ci sono pittori autoreferenziali che si professano antimafia nel timore che la loro attività artistica non sia evidente agli occhi degli osservatori. Si autovalutano e si autodefiniscono. In tal modo sono più tranquilli e la loro arte risulta più rassicurante agli occhi dei loro ammiratori. La cosa succede anche a certi letterati, a molti cineasti e attori e a una variegata categoria di speculatori che sotto questo paravento, nascondono una sufficiente indifferenza per la lotta contro la mafia di cui spesso sconoscono le strategie e i percorsi più elementari.
Non è il caso di Pino Manzella, già amico e compagno di lotta di Peppino Impastato, solitario artista dell’impossibile, cioè sognatore di un mondo nuovo fino al limite dell’intimismo e del paradosso. Una qualità che si può meglio apprezzare, se si tiene conto della vulgata correnteche trasforma il prodotto culturale in strumento di potere, oggetto di consorterie massmediali. E dico questo, non perché, da amico, io voglia fare le celie alle riconosciute capacità artistiche di un cinisense che conosco da oltre vent’anni, ma perché vedo nella sua opera ciò che lo accomuna a quella categoria di persone che fanno il loro mestiere, senza attribuirsi particolari meriti, ma semplicemente continuando a fare quello che hanno imparato alla bottega di un’antimafia attiva, solitaria e minoritaria quale fu quella del circolo di Peppino Impastato “Musica e cultura”. In questo artista, come nel suo maestro ideale, la Sicilia è messaggio e simbolo, tradizione popolare autentica e universo intellettuale. Lo cogliamo in diverse opere di questa mostra che credo abbia il filo conduttore della Sicilia rivisitata attraverso la lente dei suoi migliori interpreti, o mediante la condanna di alcuni suoi simboli negativi. Simboli e realtà della distruzione dei doni che stanno alla base della condizione siciliana e universale: la parola, il segno, l’esempio, l’azione, la sconfitta, il mistero e il paradosso, la ricerca della verità, la condanna senza mezzi termini, il valore della speranza.
Per questa ragione il visitatore troverà in questa mostra, che si è aperta a Cisini, nel contesto del Cinquecentesco convento dei benedettini, il filo conduttore dell’antimafia attraverso la raffigurazione delle migliori voci che la Sicilia ha avuto nel corso del Nocecento: da Vitaliano Brancati ad Andrea Camilleri, da Leonardo Sciascia a Danilo Dolci. E’ una visitazione libertaria nella quale sono costanti gli incubi della distruzione che si addensano in un istante e danno l’idea dei mostri sacri che hanno distrutto la Sicilia di un tempo, quella che troviamo negli emblemi delle antiche carte con i simboli del Senatus populusque Panormitanus, e di quegli altri che l’autore ricama con repulsione per definire la fauna odierna e sempiterna di quel mondo di scarafaggi, camaleonti, talpe, e uccelli rapaci che hanno deturpato e distrutto la bellezza della Sicilia, il patrimonio della sua storia, la sue vere identità di isola del mito e della bellezza. Quella che da sempre gli intellettuali di mezza Europa sono venuti a cercare tra le nostre campagne e lungo le nostre coste. C’è in questa Sicilia sognata, non il vittimismo di chi ha dato tutto, come Felicia Impastato o le vittime delle stragi, ma la speranza e la parola liberatrice. Quella di Gaspare Cucinella e di Ignazio Buttitta, di Vincenzo Consolo e di Lucio Piccolo, di Elio Vittorini e Vitaliano Brancati. Di Sciascia, Picasso e Guttuso. C’è la memoria dell’infanzia perduta di Peppuccio Tornatore e il teatro di Franco Scaldati. Insomma la Sicilia migliore, ma anche la cultura nazionale ed europea, con la sua storia, il suo travaglio, le sue guerre civili di sempre. O, per andare oltre, l’uomo di cui parlava Jean Paul Sartre: “Totalmente impegnato e totalmente libero” e che dovendo scegliere tra la morte e la vita, sceglie la vita. Un dilemma saggiamente rappresentato dal Trionfo della morte di Palazzo Abatellis, con Pablo Picasso che domina la scena in primo piano. Tutto il resto è, nella formazione di questo nostro artista, comunicazione inutile; anzi, negazione di ogni senso del rapporto tra la soggettività degli individui e il loro bisogno di comunicazione autentica. Da qui il valore, o meglio l’inutilità di certa stampa, buona sola per avvolgerci “reschi” (lische di pesce). Termine efficace del lessico siciliano che vuole significare una complessità di elementi negativi e una molteplicità di espressioni dialettali: “’na cartata ri reschi” (un pezzo di carta pieno di lische); oppure “aviri ‘a panza china ri reschi” (avere la pancia piena di lische, cioè essersi saziato di cose inutili e dannose). Espressioni metaforiche di una relazione sociale e di un processo educativo non creativo, che, al contrario, per Manzella deve avere gli elementi dello sviluppo. Qui si innestano aspirazioni culturali e ansie di svolta politica e sociale che l’artista elabora attraverso il filtro del suo particolare modo di sentire il mondo che lo circonda, fatto di simboli positivi e di moniti. Per chi non avesse ancora capito il valore della cultura, del sacrificio, dell’essere società e Stato. Per l’affermazione della persona umana e contro il dio denaro.
Giuseppe Casarrubea