Marchionne, in questi anni, ha operato in modo da ottenere un consenso intorno alla sua strategia. Ha ottenuto finora quello che Gramsci considerava le condizioni per la «egemonia sociale e del governo politico, cioè: 1) del consenso spontaneo dato dalle grandi masse della popolazione all'indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo fondamentale dominante 2) dell'apparato di coercizione statale che assicura legalmente la disciplina di quei gruppi che non consentono». Al fondo - lo spiega molto bene Paolo Ciofi - il principio ispiratore del piano Fabbrica Italia non era il rilancio della produzione, ma era quello di stabilire un «potere assoluto del capitale in fabbrica» per «rassicurare i mercati e a far lievitare il titolo in Borsa», così da «rastrellare i mezzi necessari ad assumere il controllo della Chrysler, come puntualmente si è verificato». Attorno a questa necessità di potere assoluto, Marchionne ha costruito un consenso, sia tra il suo gruppo sociale di riferimento e sia, soprattutto attraverso i sindacati compiacenti, nei lavoratori che venivano aizzati tra loro.
Già nel luglio scorso Marchionne affermava di essere motivato a «fare uscire l’Italia da questo buco nero», ma che per farlo aveva bisogno di «lavorare in pace», come avviene – a suo dire – in tutto il mondo tranne che in Italia a causa di relazioni sindacali da guerra ideologica. Si tratta di una delle questioni per cui Fiat sarebbe andata a produrre la nuova 500L in Serbia. Sappiamo benissimo che queste motivazioni sono state assunte anche dai sindacati ormai da tempo scandalosamente "ingialliti". E quelle stesse motivazioni sono state assunte da quegli stessi sindacati per provare compattare i loro iscritti (tentativo fortunatamente non sempre riuscito), attraverso la paura della delocalizzazione, contro i sindacati più combattivi come la Fiom e per far loro accettare quelle riduzioni delle tutele sindacali e quel maggior grado di sfruttamento in fabbrica, precondizioni per l’attuazione di quel, a dire poco fumoso, piano Fabbrica Italia.
Quel piano non si è mai concretizzato sul lato degli investimenti annunciati in pompa magna. Invece, sul lato dell’affermazione del potere padronale in fabbrica, Fabbrica Italia trovava una prima applicazione nell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, firmato anche da quella Cgil che da anni annuncia scioperi generali senza proclamarli, e che prevede la possibilità di accordi in deroga al contratto nazionale ogni qualvolta sia richiesto da «esigenze degli specifici contesti produttivi». Non è un caso che Emma Marcegaglia, allora presidente di Confindustria, solo una settimana prima la firma dell’accordo, affermava che quello sarebbe stata «una risposta alle esigenze corrette che la Fiat manifesta». Di lì a qualche a mese il governo Berlusconi approva la cosiddetta “manovra di Ferragosto” che contiene, all’articolo 8, lo smantellamento di qualsiasi forma di tutela per i lavoratori. Con la manomissione dell’articolo 18, è stato quindi messo il suggello alla «egemonia sociale e del governo politico» portata avanti da Marchionne, quale testa d’ariete di un capitalismo che non ha smesso di fare la lotta di classe.
La rinuncia al piano Fabbrica Italia (la credibilità del quale poteva essere accettata solo da organizzazioni ed esponenti sindacali e politici funzionali alla strategia in stile Marchionne) e la disinvoltura con il quale è stata annunciata, è l’affermazione più evidente del potere del capitale in fabbrica e della egemonia sociale e politica. Opporsi a quel potere e a quell’egemonia spetta al protagonismo del lavoratori. Ed in questo senso, i referendum per il ripristino dell’articolo 18 e la cancellazione dell’articolo 8 assumono un’importanza fondamentale per recuperare terreno sui rapporti di forza tra capitale e lavoro. E guarda caso, ad opporsi o a muovere strumentali perplessità sui quei quesiti referendari, sono quegli stessi soggetti che hanno permesso in qualche modo che si realizzassero le ragioni latenti del piano Fabbrica Italia.