Marco Amendolara, IL CORPO E L’ORTO, La Vita Felice 2014
Esistono dei libri che sono testamenti postumi in vita – tale è, per esempio, l’opera di Salvo Basso -
Come tali, contengono premonizioni, se non addirittura progetti o allusioni. Ci dicono fino a che punto può giungere la coscienza, quando l’attesa diventa un inutile ostacolo, uno sbarramento che impedisce il ricongiungimento tra il corpo e l’orto.
Il corpo, allora, si guarda, si percepisce come altro da se stesso, qualcosa che è già pronto per il salto. E il viaggio che compie è lo stesso, lo stesso guardare dentro un’enorme voragine, “il pozzo, un antispecchio / che non vuole conoscere / il tuo volto”, “pronto al sonno o all’ascensione”.
L’orto è la Natura, il grembo che accoglie, forse, o che divora. Così questo aldilà non è accolto quietamente: “La natura ti annulla, è niente / e tu sei natura”; si spera che la fine sopraggiunga “nel segno della salvezza”. Non c’è un dio che interpreta le azioni, che giudica; non si sa se si tratta di sonno o ascensione. È, certo, un trapasso, un altro modo di essere, “La natura e il mondo / vivono in me, / accerchiano l’ombelico, / sono me stesso”. L’orrore, al contrario, è rappresentato dall’ossessione di sopravvivere, rimanere in un mondo infestato in cui “nell’ombra avvengono mutazioni”.
È dunque completamente premeditata questa descrizione del corpo che se ne vuole andare. Il “tu” sembra appartenere, appunto, a colui che è rimasto e a cui l’altro tu deve rivolgere la parola per raccontarsi.
Così a volte gli eventi sono già avvenuti, “il corpo diventò rosso, febbrile”, altre volte ci troviamo in un presente di meditazione e trepidazione, di dolore frontale.
Fino alla scena in cui, in un bosco, “le apparizioni erano sempre più / indecifrabili” e “così, con saggezza immensa, fra volo e terra, / mi insegnavi a morire”.
Quindi non si muore per un gesto improvviso, occorre che ci siano premonizioni, che gli occhi si siano abituati a guardare il Nulla; che qualcuno, infine, ci insegni. Ed è questo, dunque, l’aspetto che più turba di questo libro frontale e tragico: e cioè che la morte abbia bisogno di un progetto, di un apprendistato lucidissimo; come la nascita, come la vita. Qui, sembra, ci sia contrapposizione tra gioventù e maturità, proprio perchè la maturità coltiva il “desiderio / di non morire e di replicarsi, / all’infinito”.
“Vorresti abbandonare il corpo / rimanendo in vita”; il punto, dunque, non è abbandonare la vita, ma rispondere con un gesto a un’oscura domanda che si è conficcata dentro al corpo, a un suo senso non risolto.
Sebastiano Aglieco