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Marco Bellini: i rumori dei millenni

Da Narcyso

 

Marco Bellini, Sotto l’ultima pietra, La Vita Felice, 2013

bellini
Come si sa, o si dovrebbe sapere, l’amicizia favorisce la conoscenza e quindi anche l’ermeneutica di un’opera (Raimon Panikkar). La presente nota alla raccolta Sotto l’ultima pietra di Marco Bellini è frutto, certo, di lettura testuale, ma segue anche un mio successivo incontro faccia a faccia con l’autore; un paio di giorni trascorsi insieme, un’occasione bella di condivisione. Parole volute e scambiate, domande reciproche, risposte rimaste in sospeso.

Grazie a questo incontrarsi, in primis, ho compreso che la forza del tessuto poetico di Bellini deriva da un equilibrio raggiunto tra opposte tensioni; da un punto di mediazione tra ricerca esistenziale e ricerca formale. Bisogna cercare la vita per trovare la forma; perché se si cerca prima la forma, si trova la morte (Eduardo De Filippo). Ecco, in questo libro di Bellini mi sembra di aver trovato proprio questa maturità: la maturità che deriva dall’ascolto. In primo luogo dall’ascolto del proprio sentire, quello più intimo e nascosto, quello più sottile, profondo, doloroso. E poi, chiaramente, tutto il resto del lavoro: l’applicazione, il metodo, lo studio per trovare le soluzioni linguistiche, gli strumenti retorici, le immagini più adeguate.

La tensione poetica, qui, è guadagnata passo dopo passo con l’andatura lenta dello scalatore, in un percorso fatto di luoghi, movenze e parole precise; precise perché prima pensate. Anzi, prima ancora, immaginate. Immaginate come indicazioni di un paesaggio familiare, segnato – tra l’altro – nella cartografia che apre il libro. È un sentire che nasce da un pensiero immaginale; da un paesaggio, in primo luogo, interiore, ricco di tracce e direzioni aperte al centro di un tempo frastagliato, disseminato in reperti e storie che seguono il letto di un fiume. In un lento restituire tutto di sé, di noi, in voci umane, in lasciti minerali e vegetali, testimoni sempre di una storia fatta di fragilità, che proprio per questo deve essere raccolta con cura, con amore.

Nella poesia incipitaria (La radice, p. 11) c’è una felice intuizione spazio-temporale: il tempo sembra intessuto di spazio, nella fissità della materia, nella gelida distanza, che però porta in sé già tutta la trasformazione, come il ghiaccio prima del suo liquefarsi; e poi nel suo farsi più prossimo a noi, nello scorrere della nostra storia. E anche in una dimensione ulteriore: nello sciogliersi di pensieri, ricordi, suoni, colori. Dentro la vita, come dentro una memoria-fiume.

Con questo libro, poesia dopo poesia, Bellini ci accompagna nella ricerca dei reperti più umani, nella mappatura di un cammino possibile, verso un’origine comune. Le sue sono poesie aperte che creano un testo transitivo. Qui non c’è ripiegamento verso se stessi; il verso non è centripeto, non è verso il corpo. Nulla di ombelicale. Il supporto non è l’ego: niente intellettualismo, niente sentimentalismo. E neanche fuga nell’essenza e nel simbolismo. Invece c’è un sentire profondo, c’è concentrazione per rompere la scorza, e poi, direzione presa verso il mondo. Lo strumento è quello del correlativo oggettivo, qui usato per superare le secche, per prendere un poco le distanze, per agevolare il vero soggetto di tutto il movimento, che adesso può uscire. Ed ecco, allora, lo sguardo attraverso il quale si supera il nostro limite. Ma se è il supporto sottile più adeguato allo scavo nel quotidiano, lo sguardo è anche il veicolo del ritorno, il movimento che ci riporta sempre al punto, al bambino dentro, che tutto vede, che tutto conserva (Arimo, p. 19). In Bellini il ricordo personale, superando ogni stretta biografia, diviene memoria sovrapersonale. Da una particolarità fatta di luoghi e persone, allora, il poeta passa ad un’attenzione più universale che guarda all’interezza della vicenda umana.

Umanamente basso, dall’humus, è anche il linguaggio, sempre così essenziale ed efficace, che caratterizza il libro. Il lessico, infatti, è quello quotidiano, quello del parlato, quello del discorso colloquiale. All’interno però c’è un fuoco che tiene accesa la fiamma della parola. È il procedere di una lingua senza fronzoli, senza giri di parole, senza giochetti e trucchi suggestivi. È poesia civile quella di Bellini, perché sempre aperta alla condivisione di uno stesso luogo di dolore (Le dita sulla rete – un campo profughi del terzo millennio, p. 29). Perché qui è urgente quello che si sente, è davvero necessario quello che si dice.

Paolo Pistoletti

 

***

dalla sezione SEGUENDO L’ACQUA (L’ADDA)

La radice

Nelle valli che guardano Bormio
la nascita dalla morte dei ghiacci
come il predatore dalla preda.
I rumori dei millenni sciolgono gli spigoli,
i gocciolii muovono le pietre, si scoprono i fossili.
Finisce un tempo solido, il primo rigagnolo
tra i muschi e il filo spinato di una guerra
cerca un solco; ne farà un letto.
L’ombra del muso, sopra si muove un camoscio.

Da lì si stacca verso paesi appoggiati
luci gialle, pentole e tinozze per i giorni.
Saranno trecentotredici chilometri.

*

«Arimo»

a Vittorio

«Arimo»: quando l’infanzia viene a trovarti,
dentro una parola rimasta senza voce.
E la riconosci, ti apre, torna feconda.
«Arimo»: era per tirare il fiato
mettere una pausa nella corsa dei giochi.
Davanti a questa parola anche le lucciole
posavano la lanterna. Poi si ricominciava.

E penso a Vittorio, a quando il fianco
di un prato ci nascondeva
arimo era una possibilità di festa
e morirai una parola nella sua tasca.
Lui che da grande, finiti troppo presto
gli amori, alla vita disse «arimo» e alla tasca
l’ascolto. L’ultimo gioco fu in un bosco
a tagliare legna e il suo futuro.
E adesso come una figurina
si stacca dalla memoria, da quel bosco
battuto da un vento arido, adesso
che a dire «arimo» ci siamo noi.

***

dalla sezione SOTTO L’ULTIMA PIETRA

Le dita sulla rete 
(Un campo profughi nel terzo millennio) 

Alle spalle, fermate con i sassi lungo linee regolari, le tende;
sotto: la terra sbagliata, quella che nessuno chiama casa.
Stanno in piedi, lo sporco dietro le orecchie, le mosche
sulle pieghe sudate; tengono le dita sulla rete, guardano
lo spazio, una linea diversa che sia una proposta.

Chissà se provano a fare il conto: la distanza dalle colline
che ogni notte si spengono e mettono a letto le cose,
una sedia, una coperta piegata di fretta. Oggetti lasciati
nell’urgenza del distacco, o forse per appartenere ancora.
Là tra i ciuffi e le rocce, si tiene la possibilità
di tutte le direzioni, un’altra luce, un ritorno. Lo sanno,
domani niente sarà più vicino e la coperta ancora perduta.

A qualcuno toccherà fermare lo sguardo, tenerlo sopra,
misurare il perimetro, la rete che tiene fuori la paura
e dentro li fa stranieri. Si dovrà mettere qualcosa al servizio:
un passo, o l’avanzo sporcato del tempo gettato. Lo sappiamo,
qualcuno dovrà guardare sotto l’ultima pietra. 

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