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Giuliano Scabia, Marco Cavallo, Da un ospedale psichiatrico, la vera storia che ha cambiato il modo di essere del teatro e della cura, nuova edizione a cura di Elisa Frisaldi.
Un classico del teatro
Una rivoluzione per la psichiatria
Nuova edizione con contribuiti di
Franco Basaglia
Umberto Eco
Peppe Dell’Acqua
E un DVD commentato da
Giuliano Scabia e Peppe Dell’Acqua
Marco Cavallo è una macchina teatrale. I matti non lo hanno costruito materialmente, non lo hanno mai toccato. Mentre cresceva la sua struttura in legno, mentre prendeva forma la cartapesta, mentre si plasmava la testa, i matti hanno costruito, senza mai toccare il cavallo, ripeto, qualcosa di più duraturo, di più indefinito. Il colore azzurro. La pancia piena di desideri, dall’orologio di Tinta al porto con le navi della giovinezza di Ondina, dalle tante Marie all’immancabile «fiasco de vin», dalla casa alle scarpe, al volo, al viaggio, alla corsa, all’amico, alla libertà.
La libertà: i muri del manicomio frantumati, la teoria infinita di matti che, dietro al cavallo, esce dalla breccia e si perde per le vie della città. Boris accompagna il corteo suonando la fisarmonica. I nemici, la lotta ai nemici, a chi vuole chiudere la breccia, a chi vuole ricacciare nel recinto, nell’ordine fermo e servo, chi finalmente comincia a camminare, a scoprire che ha le gambe. Marco Cavallo in testa, in prima fila. Era una limpida domenica di marzo, pulita dalla bora quando, Marco Cavallo tentò di uscire dal laboratorio. Era troppo grande, appesantito dal carico di bisogni, desideri che si portava dentro. Le porte erano strette, provò la porta del giardino, poi la veranda, pensando di saltare la ringhiera. Cercò di piegarsi, di mettersi di taglio, si abbassò, pancia a terra, si ferì. Niente. Restava chiuso dentro. Tutti erano lì a guardarlo: era quello il suo momento. Cominciò a correre nervoso per il lungo corridoio del vecchio reparto «P» trasformato in laboratorio, avanti e indietro, proprio come avevano fatto per anni i malati che lo avevano abitato. Giuliano cercò di calmarlo, dicendo che bisognava aspettare, che forse non era quello il momento, che bisognava avere pazienza. I malati cominciarono a pensare di avere solo sognato, secoli di grigio tornarono nelle loro teste, urla disumane assordarono le loro orecchie. Dino Tinta piangeva. Marco Cavallo, fremendo, testa bassa, cominciò una corsa furibonda, come impazzito, verso la porta principale e, senza più esitazione, oramai a gran carriera, aggredì quel pezzo di azzurro e di verde oltre la porta.
Saltarono gli infissi, i vetri. Caddero calcinacci e mattoni. Marco Cavallo arrestò la sua corsa nel prato, tra gli alberi, ferito e ansimante, confuso all’azzurro del cielo. Gli applausi, gli evviva, i pianti, la gioia guarirono in un baleno le sue ferite. Il muro, il primo muro era saltato.
La prima grande uscita in città, paradossalmente trionfale. Poi, così come era destino, in giro per il mondo. La carica simbolica, certo, l’hanno costruita i matti.
Noi non sappiamo cosa sia stato Marco Cavallo, ma una cosa è certa: per noi ha avuto una profonda importanza. Quando oggi gli ospiti dell’allora ospedale psichiatrico di Trieste si incontrano in città, molti ripensano al periodo in cui costruirono Marco Cavallo come a un momento che segnò un nuovo inizio; un progetto di vita che non aveva niente in comune con l’odiata quotidianità del manicomio, ma che rappresentava piuttosto un legame tra individui in una nuova dimensione. Quando il cavallo azzurro lasciò il ghetto, centinaia di ricoverati lo seguirono.
La testimonianza della povertà e della miseria dell’ospedale invase le strade della città portando con sé la speranza di poter stare insieme agli altri in un aperto scambio sociale, in rapporti liberi tra persone (Franco Basaglia).
La festa di oggi rappresenta per noi un momento di lotta iniziato da oltre un anno contro tutto ciò che il manicomio in Italia è e rappresenta. Marco Cavallo vuole essere simbolo di un processo di liberazione in atto per tutti quelli che soffrono della vita manicomiale.
In questo senso, coerentemente, dobbiamo sottolineare che, seppure questo processo di liberazione dell’ospedale psichiatrico provinciale di Trieste è avviato, coloro che vi lavorano sperimentano, giorno per giorno, nella loro attività pratica, sulla loro pelle e su quella dei malati la persistenza di problemi insuperati.
La realtà attuale dell’ospedale è:
1) che, malgrado il nostro impegno più intenso, le condizioni materiali di esistenza dei ricoverati sono ancora totalmente dominate dalla miseria e dalla mancanza degli oggetti più elementari (servizi igienici, vestiti, armadi, comodini, cibo decente ecc.);
2) che le condizioni di lavoro degli infermieri sono estremamente disagiate (48 ore settimanali, scarsità di personale, salari irrisori, turni faticosi e impossibili);
3) che manca qualsiasi prospettiva reale (lavoro, case, mezzi di sussistenza ecc.) per la maggior parte dei degenti così condannati a restare per sempre assistiti.
Ribadiamo quindi la complessità di problemi la cui soluzione non può essere demandata ai soli operatori, poiché essa investe la responsabilità degli amministratori, dei politici. Individuiamo coerentemente nello sciopero generale nazionale del 27 e nello sciopero generale provinciale del 28 una ulteriore occasione di lotta per sottolineare assieme ai lavoratori ed alle forze sindacali l’esigenza di una trasformazione sociale senza la quale non può esservi trasformazione reale dell’istituzione psichiatrica. Ci impegniamo perciò ad una cosciente partecipazione a queste importanti scadenze di lotta.
Infermieri, medici e artisti dell’ospedale psichiatrico provinciale di Trieste 25 marzo 1973
EVENTO
PRESENTAZIONE DELLA NUOVA EDIZIONE
Impazzire si può – Viaggio nelle possibilità delle guarigioni, Trieste, 22 – 24 giugno 2011