UN CASO CLINICO.
Marco, il nome è inventato ma la sua storia è vera, mi telefonò circa quattro mesi fa in studio per chiedermi un appuntamento. Dopo essersi presentato mi disse che aveva bisogno di vedermi, di un colloquio. Guardai istintivamente l’agenda della settimana successiva e proposi un giorno che rifiutò. Mi disse che era libero un martedì, dopo 20 giorni. La cosa mi sembrò un po’ strana ma non feci domande e acconsentii per l’appuntamento proposto.
Dopo 20 giorni, puntualissimo, si presentò un giovane uomo vestito sportivamente con lo zainetto dietro le spalle, alto, biondo, cappelli corti a spazzola , occhiali tondi senza montatura di una apparente età di 27, 28 anni. Salutandomi mi diede la mano abbassando leggermente la testa e intanto guardava da un’altra parte. Gli chiesi di aspettare alcuni minuti in sala da attesa e quando andai a prenderlo lo trovai in piedi davanti alla finestra mentre fissava fuori.
Io: Prego si accomodi….Prego si…..
Marco: Chi io?
Feci fatica a trattenere un sorriso, non c’era nessun altro.
Gli feci strada in studio e lo invitai a sedersi sulla sedia davanti alla scrivania.
Si sedette dopo aver appoggiato lo zaino vicino alla sedia senza togliersi niente di dosso e abbasso la testa.
Io: Se si vuole togliere il giaccone. Qui, mi sembra, faccia caldo….si sta bene.
Marco mi guardò… sospirò e poi si tolse il giubbotto appoggiandolo sulla poltrona, nel punto più vicino a me.
Marco: Le da fastidio?
Io: No, no…lasci pure.
Mi guardò dritto negli occhi e accennò ad un sorriso e stette a lungo in silenzio.
Io: Mi racconti qualcosa….quello che vuole.
Marco mi guardava, gli occhi gli si erano riempiti di lacrime, si stringeva in se stesso come cercasse la forza per poter aprire le labbra. Si contorse quasi in uno spasmo di dolore, poi allungò lentamente il braccio con la mano aperta verso di me e arrivato in fondo all’estensione la chiuse nervosamente in un pugno chiuso che riportò con uno scatto alla fronte, quasi ad appoggiarsi.
Guardavo in silenzio e provavo un profondo senso di compassione. Mi chiedevo quali pensieri gli bruciassero dentro. Mi mostrava il suo dolore ma non potevo far altro che aspettare che avesse il coraggio di dargli un nome.
Marco: Io, balbettò…sono un omosessuale.
Silenzio
Marco: Le ho detto che sono un omosessuale, sono gay.
Io: Ho sentito, ma non capisco.
Marco: Cosa, non capisco? Io vivo dei rapporti omosessuali, vado con gli uomini. Ho avuto una donna per due anni, mi piaceva ma non provavo niente, sessualmente…. Poi ho conosciuto un ragazzo, poi altri….. ogni tanto andavo anche con le donne …ma da un anno e mezzo sto con Patrizio.
Io: Marco mi deve scusare, ma cosa c’è di male ad avere dei rapporti omosessuali? Da anni anche noi Psicoanalisti che non siamo proprio degli innovatori, non consideriamo più l’ omosessualità come una perversione sessuale. Il problema che ci poniamo non è tanto che uno sia omosessuale o eterosessuale ma che viva bene la sua sessualità. E’ evidente che lei non vive bene la sua e allora, dovremmo chiederci perché.
Marco: Perché? Io vivo in un paesino. Lei si immagina cosa succederebbe se sapessero che vado con gli uomini, che sono gay che non sto con Patrizia ma con Patrizio. Patrizio è il mio amico, compagno…. Compagno!? Immagina mia madre?
Io: No, non lo immagino, non la conosco, come non conosco il suo paesino. Lei vive con sua madre?
Marco: Si.
Io: Ma lei andrebbe a vivere in città con Patrizio?
Lungo silenzio….
Marco: No, No, non so….forse no… ma io voglio bene a Patrizio.
Io: Ma non vivrebbe con lui?
Marco: No, penso di no.
Io: Cosa centra il paesino, i genitori…e forse anche l’omosessualità, il fatto di essere, come dice lei, gay? Cosa centra il fatto di essere omosessuale con la sua difficoltà a vivere una esperienza d’amore? Prima ha lasciato la ragazza…ora ha difficoltà a stare con Patrizio…..
Marco mi guardava, teneva la testa inclinata in basso un po’ girata a sinistra. I suoi occhi erano un po’ succhiusi ma fissi su di me. Percepivo disappunto, un distacco pieno rabbia antica. Non poteva aggredirmi ma mi rifiutava.
L’incontro continuò ancora una trentina di minuti. Marco insistette nel suo atteggiamento di “ragazzo sfortunato” e io tentai di mostrargli che forse le sue difficoltà erano oltre.
Non sapevo, capivo, perchè avesse così tanta paura ad amare ed avesse sostituito all’amore il sospetto, la rabbia.
Non capivo come questa difficoltà si fosse mescolata con l’omosessualità e come lui utilizzasse quest’ultima come uno scudo difensivo. Mi sembrava così.
Quasi alla fine della seduta gli chiesi?
Io: Marco, alla fine di questo nostro incontro, lei cosa mi chiede? Come posso aiutarla?
Marco: Vorrei vivere un po’ più in pace con me stesso.
Io: Si questa è una aspirazione generale condivisibile ma, un po’ più nello specifico, come pensa che io possa aiutarla? Cosa mi chiede?
Marco: Non lo so.
Io: Senta Marco, ci pensi. Io non credo che il problema sia la sua omosessualità ma, forse, la sua capacità ad amare a farsi amare. Mi ha detto che Patrizio le vuole bene… e anche lei gliene vuole, ma… Ecco, li, forse, la posso aiutare, a chiarire dentro di sé quel “ma”.
Ci siamo salutati. Marco non mi ha chiamato, sono certo provasse delusione. Non l’avevo coccolato come un povero “bambino sfortunato”, anzi, avevo tentato di trasmettergli che il suo star male dipendeva da lui che forse non voleva crescere. Sono certo che se un giorno tornerà, sarà un uomo che mi chiederà di camminare a suo fianco, non di prenderlo in braccio.
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