Il pirata montano
Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata.
Con tutti Marte e Venere segnano per sentire.
Marco Pantani
(Biglietti autografi rinvenuti nella stanza 5d del Residence “Le Rose” di Rimini, dove Marco Pantani è stato trovato morto la sera del 14 febbraio 2004)
Il 2 agosto 1998 i nostri occhi hanno visto questa immagine: un uomo giunto all’apice del suo successo, salutato da milioni di persone mentre sta mostrando con estrema semplicità la propria vittoria. Vittoria di fatica, di grande abnegazione, di sofferenza, la tipica sofferenza dell’atleta che per ottenere risultati si allena, si infortuna, è costretto a rivedere i suoi piani, le sue tattiche, e deve rinascere, sempre. Dietro di lui l’Arc de Triomphe, il simbolo di altre vittorie celebrate e incastonate nel marmo, il simbolo edificato perché restasse la testimonianza perpetua di un uomo che trionfò “E sparve, e i dì nell’ozio / chiuse in sì breve sponda[1]”.
Il paragone sembra audace, un ciclista accostato ad un generale d’armata divenuto poi imperatore, Napoleone Bonaparte, il Corso che ha cambiato il volto della terra con le sue conquiste, frutto di una genialità unica in ambito militare, e con la sua ambizione travolgente unita al desiderio giacobino di esportare la Révolution oltre i confini di Francia. Eppure in questo paragone c’è tutta la vicenda dell’umanità, dalla prima all’ultima apparizione, non ancora sancita e nemmeno prevista, ma certa, quant’è certa la fine biologica dell’uomo. È una fine a cui tutti partecipano, segnata nel nostro organismo, ed è anche la fine personale e collettiva che nega l’eternità della specie, di una specie che muore continuamente e s’illude di poter vivere all’infinito, facendo figli, facendo opere, facendo…
Di questa nostra precarietà rimane un monumento, che qualcuno definì “aere perennius”[2] per poi ammettere “pulvis et umbra sumus”[3]… Di questa nostra precarietà rimane una fotografia, rimane la solitudine assoluta dell’uomo che abbandona la vita, quella vita che lo aveva persino abbracciato cullandolo, lusingandolo con promesse di glorie seguenti, per poi spingerlo nel mare dell’indifferenza, l’indifferenza che ci affoga.
Tra una camera d’albergo a Rimini e una stanza di una villetta in un’isola sperduta dell’Oceano Atlantico non corre una differenza abissale: la geografia, la storia, il tempo, lo spazio qui si annullano per offrire ancora e ancora il paradigma di un uomo peggio che solo, direi piuttosto desertificato, prosciugato dalla memoria di un passato glorioso che agita spettri ormai osceni. Osceni sono gli oggetti della vista di una mente ossessionata e oppressa dall’umiliazione totale, dall’essere già defunti in vita, ossia senza progetti, perché demoliti dall’esilio.
Il 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio in un attimo è scesa la mannaia che ha mozzato una carriera, una leggenda sportiva, un’esistenza, è quell’attimo in cui Marco Pantani ha saputo di dover abbandonare il Giro d’Italia. E Marco Pantani stava vincendo a mani basse quella corsa a tappe, per la seconda volta consecutiva, e a distanza di un mese avrebbe affrontato il Tour de France da detentore, con il numero 1 sulla divisa di gara, sulla bicicletta. Un attimo che gli altri fanno subire e decretano sulla pelle di una persona. Una condanna senz’appello. Ad un tratto spariscono i sorrisi, le bandiere, la festa di una Milano in rosa, la gente che ti dà una pacca sulla spalla mentre sali sui pedali en danseuse scalando le Alpi e i Pirenei, sparisce il telecronista di France 2 che grida estasiato “Quel panache!”, spariscono gli Champs Élysées insieme alla moltitudine in giallo che scandisce “Pan-ta-nì, Pan-ta-nì”.
Cambia all’improvviso lo scenario: un altro bagno di folla, composto però da agenti delle forze dell’ordine; un’altra tempesta di flash dei soliti paparazzi che stavolta fotografano un volto umiliato, sparito; un’altra ressa di giornalisti che non chiedono più se sei un simbolo, un mito di un’epoca che non produce quasi più niente, ma se sei davvero onesto…
Un’altra fermata temporanea? No, stavolta si scende davvero. Niente a che vedere con l’incidente avvenuto durante la Milano-Torino nell’autunno 1995, a pochi giorni dal suo terzo posto, dalla medaglia di bronzo ottenuta ai Campionati Mondiali svoltisi in Colombia, a due mesi da uno splendido Tour de France, dove si pose all’attenzione del mondo intero con le vittorie all’Alpe d’Huez e al Guzet Neige. Nell’ottobre 1995, appunto, Marco Pantani fu investito da una grossa auto che andava contro mano, e a causa di quell’incidente dovette restare senza gare per un anno: frattura alla tibia e al perone della gamba sinistra, tra le peggiori fratture che possono capitare ad un atleta. L’imperativo psicologico allora fu decisivo: il profondo affanno della riabilitazione fisica, della piena guarigione aveva un sapore di rivincita nei confronti di una mala sorte beffarda. Chi guidava l’auto non aveva messo in discussione il talento dell’atleta, non si poneva interrogativi morali sulla sua condotta agonistica.
Bisognava rinascere, tornare quelli di prima, anzi, migliori di prima, dimostrare che le fratture ossee non potevano distruggere il lavoro di un decennio all’insegna della genialità. Sì, pura genialità.
E il “pirata”, così soprannominato per la bandana che ricopriva il suo capo calvo e gli orecchini, colui che ci aveva abituati agli arrembaggi montani sulle salite più aspre delle corse più dure, rinacque durante il Tour de France del 1997 mettendo a segno due memorabili successi di tappa: nuovamente all’Alpe d’Huez e a Morzine. Non avrebbe vinto quel Tour, sarebbe arrivato terzo[4], ma la rinascita del genio era ormai un fatto innegabile. La pausa seguita all’incidente fortificò l’atleta, gli diede nuova linfa, lo motivò in modo decisivo nel suo esercizio.
La fotografia che adesso vediamo volentieri e con infinita nostalgia riassume tutto ciò che è stato il 1998 di Marco Pantani, secondo italiano a conseguire l’eccezionale, l’ambita accoppiata Giro-Tour, settimo in assoluto insieme a Fausto Coppi, Jacques Anquetil, Eddy Merckx, Bernard Hinault, Steven Roche, Miguel Indurain[5]. Due vittorie per ciascuna delle due più importanti corse a tappe.
Luoghi dell’apoteosi sportiva raffigurati sull’Arc de Triomphe del ciclismo di tutti i tempi: Piancavallo, Montecampione, Plateau de Beille, Les deux Alpes. Gli uomini che sono giunti secondi e hanno seguito il romagnolo sui rispettivi podi: Pavel Tonkov e Jan Ullrich.
“Grande scalatore, erede di specialisti del calibro del lussemburghese Charly Gaul e dello spagnolo Federico Bahamontes”, recitano le enciclopedie che adesso lo ospitano tra le loro pagine al fianco degli immortali dell’arte, della scienza, della storia…
Il 2 agosto 1998 i nostri occhi hanno visto quest’immagine. I suoi occhi hanno visto ripetersi la magia della vittoria del Giro d’Italia dilettanti nel 1992, la soddisfazione di passare tra i professionisti e permettersi il lusso di annichilire con il suo scatto sulla montagna dell’Aprica del Giro d’Italia del 1994 l’immenso Miguel Indurain e il russo Evgenij Berzin. Hanno visto anche la caduta durante un allenamento nel maggio del 1995 che gli impedì di prendere parte nuovamente alla corsa in rosa e di confermarsi miglior grimpeur di fine secolo. Però il ricordo della momentanea tristezza dura poco e si riaffaccia alla vista la gioia provata alla Grande Boucle a due mesi dall’infortunio, la bella conquista dell’Alpe d’Huez e l’assalto ai Pirenei espugnati a Guizet Neige, con ancora il Navarro alle sue spalle, un impassibile Indurain a provare il sapore della sconfitta. E si riaffaccia la memoria di un’altra rovinosa caduta all’inizio del Giro d’Italia del 1997 che lo costrinse al ritiro dalla gara, ma che non lo sconfisse, come abbiamo già detto accennando alle sue affermazioni nel Tour di quello stesso anno. E rammentiamole di nuovo quelle due bellissime prestazioni, con particolare riferimento alla prima.
Non dimenticherò mai quel gesto, la rabbia di Pantani all’Alpe d’Huez dopo due anni di calvario, il pugno sul manubrio e l’urlo liberatore. Non era ancora il momento di levare le braccia al cielo.
Una strana coincidenza numerica: alla tredicesima tappa Pantani bissò la conquista dell’Alpe d’Huez, per la tredicesima volta il Tour de France arrivava a Morzine e a tredici chilometri dal traguardo, sul Col de Joufflin, lo scalatore romagnolo mollava tutti per giungere solitario all’arrivo… Marco Pantani era nato il 13 gennaio 1970. Ci fu chi disse che il numero 13 gli portava bene, talmente bene che il 14 febbraio 2004…
Apro una parentesi, apparentemente estranea a questo mio omaggio al genio dello sport. Ho elencato una serie di fatti, di gesti, di immagini che hanno un denominatore comune: l’immediato. È ciò che tutti attendono, anticipato da un’emozione, gustato già prima dalla forza fantasmagorica dell’individuo, l’effetto desiderato, quell’atto inteso come espressione estetica, come energia che in noi palpita e vorremmo poter trovare nel reale, se non nel nostro vissuto almeno nella realizzazione che pochi altri sanno donarci. È lo sguardo dell’attore che sgomenta, esalta, domina il pubblico; è la parola del politico che infiamma, delude, appiattisce gli animi dei cittadini; è la nota che ammalia, stanca, emargina l’ascoltatore; è il gesto del calciatore, del tennista, del ciclista che cattura l’attenzione, la scoraggia, la rinvia. È l’immediato apparire e svanire, quella goccia in formazione, dilatata, allungata che stilla finalmente e crea il suono della natura, la visione istantanea del fenomeno, la reazione assoluta che annulla lo spazio e il tempo, che mescola la nostra materia con la materia esterna e ne fa un tutt’uno. Un colpo di pedale. E quel colpo di pedale è il grande cinema…
Quanto grande cinema non è stato girato! Altrimenti avremmo film che sono stati in grado di cogliere l’immediato. Ma il film s’occupa troppo dell’immagine morta, del set cinematografico, della realtà al di qua e di là della macchina da presa. L’immediato non c’è mai, non esiste il mistero di un guizzo, di un gesto inatteso, anche se lo prevedi. Nel film non succede mai nulla, a parte la rottura della pellicola. È già successo tutto, la festa l’hanno già fatta i produttori, i registi, gli attori, i tecnici, le macchine, e questi in unione fanno la festa agli spettatori.
Marco Pantani è grande cinema, mai girato.
E intanto i suoi occhi sono sempre là, a Parigi, con l’Arc de Triomphe alle spalle, e hanno appena visto il suo ultimo Giro d’Italia, quello vinto, stravinto, disegnato da qualcuno che non lo aspettava e non l’aveva previsto come protagonista, tanto d’aver inserito tanti chilometri a cronometro e, con sufficienza, quelle tappe di montagna, concesse soltanto per il consueto divertimento del pubblico…
Il 5 agosto 1998 le sue orecchie non hanno sentito la telecronaca di Adriano De Zan che, dai microfoni della RAI, ha fatto il florilegio di una carriera iniziata a Cesenatico e culminata nella “apoteosi degli Champs Elysées”…
Non hanno sentito le poche emozionate frasi di suo padre, ospite della postazione della Tv italiana e insieme non hanno ascoltato con curiosità crescente mista a perplessità le considerazioni espresse dall’allora direttore della Gazzetta dello Sport, Candido Cannavò:
«Ora che cosa dovrà fare questo ragazzo nei prossimi anni per stupire come ha stupito quest’anno? Perché è chiaro poi che ci si abitua a certe immagini, a certe cose, a certe sensazioni, e mi chiedo adesso che cosa… potrà fare… che bisognerà abituarsi anche qualche volta a vederlo cedere in qualche forma di stanchezza, di qualche… Perché non bisogna mai perdere il confine della umanità che c’è nel ciclismo e i limiti di questa immane fatica cui sono sottoposti questi ragazzi. Tu (Adriano De Zan N.d.R.) prima parlavi della continuità del ciclismo: c’è una corsa dietro l’altra. Ma, certo, prepararsi solo per una gara, aspettare un anno, fare la preparazione della primavera o quella dell’autunno, perché una certa selettività nelle scelte io credo che sia necessaria. Già dobbiamo pensare al Giro dell’anno prossimo…».
Ma queste considerazioni noi le leggiamo adesso, dopo averle trascritte parola per parola, nel ricordo appannato di un qualcosa che avevamo udito dalla voce di Candido Cannavò… Forse una premonizione? Senza dubbio una nota stonata, oserei dire sinistra, in una giornata di gialla luce solare tra i boulevards parigini. Qual è il significato di quella domanda che oggi suona così inquietante: “cosa dovrà fare questo ragazzo nei prossimi anni per stupire come ha stupito quest’anno” ? Che aveva in mente Cannavò quando affermava “bisognerà abituarsi anche qualche volta a vederlo cedere in qualche forma di stanchezza, di qualche…” ? Si rendeva conto mentre era perso nelle sue meditazioni a voce alta di star parlando in un modo strano, torbido, non conforme al momento? O era semplicemente l’effetto di uno scandalo che il Tour de France di quell’anno aveva appena passato? Già, lo scandalo, la vergogna dei ciclisti fermati pochi giorni prima dalla Gendarmerie, perquisiti nei loro alberghi, arrestati per detenzione e uso di sostanze proibite. Il ritiro di squadre intere, come la Festina, e di corridori che venivano osannati, come il francese Richard Virenque, coinvolti in quel raccapricciante evento. Il rischio di una possibile sospensione della gara, sconvolta dall’inaudita inchiesta giudiziaria.
Il Tour che vide il trionfo di Pantani fu marchiato da un avvenimento che gettò discredito sul movimento ciclistico mondiale: per la prima volta un’operazione di polizia così massiccia trasformò una corsa a tappe, la corsa a tappe per eccellenza, in un processo allo sport e ai suoi protagonisti. Quell’ombra oscura era scesa in modo definitivo, s’era giunti al culmine di anni e decenni di accuse all’inizio velate, poi sempre più insistenti, di sospetti, di verità taciute o dette a metà. Sangue era stato sparso prima d’allora, nei tempi antichi, quando le strade non erano asfaltate e i ciclisti arrancavano in mezzo alla polvere e al fango, prima che leggi umane avessero ridotto la fatica degli atleti costruendo manti stradali migliori, biciclette migliori, percorsi migliori, prima che leggi umane avessero tentato di regolamentare la pratica sportiva con misure deterrenti per scoraggiare l’uso del cosiddetto doping… Morti ce n’erano stati, e il Tour de France li aveva veduti, come nel 1967, quando a Tommy Simpson scoppiò il cuore per un cocktail micidiale di anfetamina e metilanfetamina. Era la tredicesima tappa di quel Tour, da Marsiglia a Carpentras, il 13 luglio 1967… Nuovamente la sindrome del 13!
Come un attore che ambiva a morire sulla scena, Tommy Simpson offrì agli occhi del mondo il suo sacrificio mentre saliva il Mont Ventoux, davanti alla folla che lo attorniava, nel tentativo di raggiungere l’idolo locale Poulidor e il forte grimpeur spagnolo Jimenez, andati in fuga con un’azione provocatoria e prepotente all’inizio della tappa. Era il momento cruciale di quel percorso in un giorno incredibilmente caldo e afoso, reso incandescente dal paesaggio brullo, senza ombre, che la montagna ventosa con la sua superficie calcarea destinava ai poveri corridori. Lo stesso monte che vide l’ascesa di Francesco Petrarca insieme a suo fratello Gherardo nel 1336, narrata meravigliosamente[6] come ascensione simbolica di un’anima verso Dio, verso se stessa, attraverso le asperità esteriori e, soprattutto, interiori. E il passo delle Confessiones di Agostino consultato da Petrarca una volta giunto alla vetta del Mont Ventoux si trasforma in un monito per gli scalatori su due ruote che sette secoli dopo cercheranno se stessi nel cimento della gara: «Et eunt homines admirari alta montium et ingentes fluctus maris et latissimos lapsus fluminum et oceani ambitum et giros siderum, et relinquunt se ipsos»[7].
Il 5 giugno 1999 Madonna di Campiglio fu la vetta della montagna più aspra, della discesa più ripida, della velocità più elevata. Marco Pantani venne fermato dopo un blitz dell’organizzazione che lo aveva costretto a un’analisi del sangue, analisi che rilevò un rapporto abnorme in percentuale tra il volume della frazione corpuscolare del sangue, ossia le cellule bianche e rosse, e il volume totale del sangue. Detto in soldoni, ematocrito. Non era doping, ma questo significava che il corridore romagnolo era a rischio per la sua salute, e quindi non poteva più gareggiare. Senza questo stop il giorno dopo il Giro d’Italia si sarebbe concluso a Milano, con la vittoria schiacciante di Pantani.
Vinse invece Ivan Gotti, secondo in classifica generale, un atleta che recriminò per lo scarso interesse che il suo successo aveva suscitato. «Qui si parla d’altro…», rispose stizzito il ciclista lombardo alle domande dei giornalisti sul caso del giorno, sul caso Pantani…
Si parlò d’altro dopo un’estate trascorsa a chiedersi cosa avrebbe fatto Pantani. E Pantani ci abituò “a vederlo cedere in qualche forma di stanchezza, di qualche…”. La sua caduta irreversibile ebbe inizio subito dopo il ritiro forzato, imposto dall’organizzazione del Giro. Sì, è vero, noi vedemmo il genio agitarsi ancora per le strade del Tour del 2000, assistemmo all’incontro tra spettri bianchi e disperazioni nere lassù, al Mont Ventoux, dove Marco Pantani vinse la prima delle sue ultime due tappe conquistate alla Grande Boucle. Ma la storia era ormai finita, nonostante le nostre illusioni, i nostri auguri di un pronto recupero psicologico e di una forma atletica simile a quella del 1998. Il motore si stava lentamente spegnendo, un declino accentuato da un clima opprimente che non dava pace a chi non lo desiderava. Le porte si sono chiuse, l’ambiente del ciclismo vedeva in Pantani l’emblema della propria cattiva coscienza, e non risparmiò ad un uomo in crisi tutta la sua ipocrita condotta. I sepolcri imbiancati avevano decretato. Soltanto una piccola, irrispettosa pietà consentì al più grande scalatore degli ultimi tempi qualche apparizione, come al Giro d’Italia del 2003. Più rigido e intransigente invece l’atteggiamento di chi cancellò per sempre il nome di Pantani dagli iscritti al Tour de France. Jean Marie Leblanc, il bianco patron, non ne volle sapere di ammettere alla gara il pirata di Cesenatico. Vae victis!
Marco Pantani ha staccato tutti con il suo colpo di pedale estremo. Il 14 febbraio 2004. Una fuga definitiva sulla montagna più alta. Nessuno lo può raggiungere. È ormai imprendibile. Non è il suo gesto più bello. Non è il suo gesto più brutto. È il suo gesto, e basta.
Il nostro destino è davvero strano: in un attimo si possono lasciare dietro di noi Indurain, Ullrich, Armstrong, il mondo. In un attimo, appunto.
Ciao Marco.
“Ora si infrange un nobile cuore. Buona notte, dolce principe, e canti e voli d’angeli ti accompagnino al tuo riposo.”[8]
“A volte chiudiamo gli occhi
perché la realtà non ci piace…
…se però smettiamo di comunicare,
non riusciamo più ad assaporare la vita
e a scrivere la nostra storia.
Il mio linguaggio è la bici…
e voglio continuare a scrivere
quel capitolo del mio libro
che da troppo tempo
ho lasciato in sospeso…”
Marco Pantani
© Marco Vignolo Gargini
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