Takashi Shimizu è un cineasta che, laddove forse non del tutto originale e innovativo in senso assoluto, ha la rara capacità di lavorare bene, e in economia, su un corpus concettuale e culturale consolidato e piuttosto tradizionale, ottenendone una versione moderna, immediata e incisiva.
Questa premessa è vera in primis per il suo lavoro più celebre, Ju-On (The Grudge), probabilmente una delle migliori ghost-story di sempre; ma anche, a maggior ragione, per Marebito, progetto genuinamente low-budget e artigianale, che però surclassa, per forma e contenuto, tante produzioni ben più pasciute e blasonate.
Il protagonista della pellicola è Masuoka (un grandissimo Shin’ya Tsukamoto), giornalista free-lance, ma soprattutto persona sola e solitaria, ossessionata dall’idea dell’esistenza di una città, o delle sue rovine, nel sottosuolo di Tokyo (ispirazione derivante, con tutta probabilità, dalla maniacale lettura di Lovecraft e Shaver).
La svolta nelle sue infinite, identiche giornate avviene quando, per caso, filma un suicidio in metropolitana (in cui si coglie qualche omaggio al Buñuel di “Un Chien Andalou”). Al di là dello shock iniziale, osservando le sue riprese coglie qualcosa di strano, nel suidica e nell’area circostante, e recatosi a esplorarla trova un passaggio di servizio, che inaspettatamente conduce ad ampi, sconosciuti spazi sotterranei. E’ uno degli ingressi di questa città proibita, oppure delle lovecraftiane Montagne della Follia, territori familiari eppure alieni, in cui la percezione della realtà del protagonista si sgretola miseramente.
Il nucleo narrativo del film inizia solo ora, nel momento in cui Masuoka trova una giovane donna incatenata nuda (efficacemente interpretata da Tomomi Miyashita), che libera dai ceppi e porta in superficie. Ben presto si scoprirà che questa giovane indifesa dall’aspetto umano, chiamata semplicemente F, non è civilizzata (come Kaspar Hauser), non parla e si nutre solo di sangue, che divora con feroce appetito.Completamente affascinato e plagiato dalla creatura, che gli da un’ulteriore prova dell’inconsistenza del reale, o meglio, dei suoi ben più ampi e labili margini, Masuoka asseconda la sua (di lei, di lui) sete di sangue, giustificata da un sacrosanto bisogno alimentare (grandissima la scena del biberon). E’ una livida discesa nell’orrore, che prima consuma la sua mente, e poi il suo corpo, in un’estasi amorosa nella quale immola se stesso per il bene della giovane vampira/cannibale.
In tutto ciò è bravissimo Shin’ya Tsukamoto (“Tetsuo”, “Vital”, “Nightmare Detective”) a trasmettere la propensione all’irrazionale che pian piano diventa lucida follia. Discesa all’inferno o scoperta di un eventuale paradiso, Marebito parla della perdita delle certezze della civiltà moderna, avvenuta proprio grazie all’indispensabile supporto della tecnologia (in questo caso la videocamera, il cellulare in “The Call” di Miike, le VHS in “Ringu” di Nakata, ecc…), vera e propria porta/non-porta verso una enhanced reality.Marebito (girato con una telecamera digitale in soli cinque giorni) è un prodotto cinematografico davvero ricco di riferimenti culturali (i già citati Lovecraft e Buñuel, ma anche Powell, Borges, Gaiman), che riesce, coi pochissimi mezzi a sua disposizione, a trascinare lo spettatore in un mondo ai margini del razionale, in cui le ortodosse dicotomie realtà/sogno, bene/male, vita/morte hanno perso la loro significatività. Rimane il deserto dell’esistenza, popolato da ossessioni personali, incubi collettivi, e dall’assoluta incomunicabilità e impermeabilità umana, che diventa vero e proprio rifiuto della vita e auto reclusione (Hikikomori, 引き篭り).
Cinema genuinamente e consapevolmente indipendente, povero di mezzi ma ricco di risorse alternative.
Poesia della paura, apocalisse culturale.
Grande Shimizu.